Renzi verso le dimissioni da segretario. “O si vota a giugno o si fa il congresso”
Doppio colpo, primarie a fine aprile, con dimissioni da segretario preannunciate lunedì in Direzione. E voto per le politiche a giugno, dopo essersi ripreso il partito con il consenso del popolo dei gazebo. È lo schema ambizioso – tattico e minaccioso – che in queste ore scalda gli animi del segretario Pd e del suo cerchio magico. Renzi non demorde: rincuorato dai sondaggi che danno i 5stelle in calo del 2,7% dopo il caso Raggi – e temendo di pagare nel 2018 lo stesso prezzo che costò a Bersani il sostegno al governo Monti – vuole votare a giugno. Possibilmente l’11: un «election day» per cercare di evitare la sconfitta in molte città in bilico, da Genova a Palermo, con il traino delle elezioni nazionali. Un sogno, in una fase come questa in cui il partito del non voto si ingrossa ogni giorno. Ma al quale Renzi non rinuncia, conscio di esser quello che dà le carte come ricorda Salvini.
La mediazione e le correnti
Ma dietro le minacce c’è il realismo che induce alla mediazione. Lunedì metterà le carte sul tavolo. Della serie, «ditemi se vogliamo fare la legge elettorale e andare a votare, oppure si fa subito il congresso». Mettendo tutti di fronte alle responsabilità di una decisione, quella di rinviare le urne, che può penalizzare il Pd e il Paese. Per lanciare un segnale sui rischi di urne nel 2018, ieri ha benedetto un post del fiorentino Dario Parrini, che cita l’economista Guido Tabellini: per il Paese sarebbe «assai rischioso far coincidere il massimo di incertezza politica – la campagna elettorale – con un evento come la fine del maxiscudo Bce a dicembre 2017, che può aprire una fase di forte turbolenza sui mercati».
Anche Padoan in Direzione
Si vedrà in Direzione, dove Renzi ha invitato Padoan per fargli illustrare i successi del suo governo, come la prenderà la minoranza. Il congresso subirebbe questo timing: voto nei circoli sui candidati alla segreteria, con primarie per la leadership a fine aprile, il 23 o il 30. E poi rinvio all’autunno delle votazioni sugli organismi dirigenti locali. Fare il congresso e votare implicherebbe però una fortissima accelerazione: convocare il congresso subito, per chiudere all’angolo Bersani e compagni costringendoli a cimentarsi in battaglia. E far venire meno le ragioni di vita del governo, portando Gentiloni a dimissioni lampo il giorno dopo le primarie. Qualcuno azzarda: magari dopo un incidente parlamentare: perché la presa di distanze dal governo con la lettera dei 37 fedelissimi guidati dal fiorentino Fanucci – mirata a far quadrare i conti solo con tagli di spesa e proventi da evasione fiscale, senza aumenti di accise – è un avvertimento. Anche se gli stessi renziani più fedeli lo definiscono «un boomerang», perché «avremmo dovuto essere almeno tutti quelli della prima ora, così sembra che perdiamo pezzi», dice uno dei firmatari. Lo stesso Renzi, nella telefonata di ieri a Padoan, ha comunque ribadito la linea: «La manovra correttiva non serve, non dovete toccare le accise, continuate a trattare con l’Ue».
Il colloquio con Orlando
Un piano che si scontra con i potentati interni, con Dario Franceschini, con cui pare abbia parlato ieri, e altri capicorrente. A partire da Andrea Orlando, con il quale Renzi si è intrattenuto ieri al Nazareno.
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