L’ultima scommessa di Matteo
Giocare d’anticipo, evitare di restare per mesi sulla graticola e dunque lasciare – già domani in Direzione – anche la carica di segretario Pd, per tenere il Congresso subito, battere la minoranza interna e avviarsi verso elezioni a giugno. Da giorni, ormai, è questo il progetto attribuito a Matteo Renzi.
Infatti, se le parole pronunciate in queste settimane dall’uno e dagli altri hanno un senso, il quadro che potrebbe presentarsi al Paese tra qualche giorno non è difficile da tratteggiare. In estrema sintesi: Matteo Renzi si dimette dalla segreteria, rendendo inevitabile un Congresso subito; la minoranza interna contesta la scelta, definendo quel Congresso una farsa e un plebiscito; i candidati-segretari (da Speranza a Rossi, fino a Emiliano) si ritirano dalla corsa; la scissione «da sinistra» diventa inesorabilmente realtà; il governo Gentiloni ne viene travolto e, dopo aver rabberciato una qualche legge elettorale, si va a elezioni con un Pd diventato «centrista» e una nuova forza di sinistra concorrenzialmente in campo.
Fermiamoci qui, perché ce ne è già abbastanza per chiedere all’uno e agli altri (ma stavolta soprattutto all’uno, cioè a Renzi) un supplemento di riflessione. C’è modo e modo, infatti, di consegnare il Paese a forze e movimenti che – soprattutto dopo la «prova generale» di Roma – non paiono ancora in grado di esercitare una efficace azione di governo: quello che sembra abbia deciso di sciegliere il Pd, però, è certamente il più incomprensibile e inatteso di tutti.
Matteo Renzi, infatti, non può non sapere (D’Alema lo ha detto in chiaro, da un palco) che l’accoppiata congresso subito ed elezioni a giugno porterebbe inevitabilmente alla spaccatura: perché insiste, allora? L’idea di partenza era rinnovare e rinvigorire il Pd, non «rottamarlo». E poi: considera davvero così mal messo il suo partito da preferirgli una nuova forza che faccia da calamita per ruderi centristi disseminati qua è là? Si fa fatica a crederlo: eppure sembra questo l’approdo inevitabile, se domani la Direzione dovesse davvero seguire il canovaccio fin qui anticipato.
Altre vie – e non per il bene del Pd, ma per gli equilibri e la tenuta del sistema – sono ancora possibili, naturalmente: basta ricercarle. Renzi può rilegittimare il suo ruolo – per esempio – attraverso una discussione dura e vera nel partito, piuttosto che con una prova di forza che rischia di trasformarsi nella nascita di due modeste debolezze; può rimettersi a tessere la tela di un accordo su una buona legge elettorale, recuperando una posizione centrale; e può riprendere la sua battaglia contro «sovranisti» e pentastellati – ancora in ascesa – magari con toni e argomenti più consoni al partito che è stato chiamato a guidare. Può provare a ritrovare centralità, insomma, attraverso la politica, piuttosto che ricorrendo ad una conta che rischia di esser distruttiva.
Tutto sta, naturalmente, ad averne voglia e capacità. Non c’è chi non riconosca a Renzi energia e idee innovative utili a rinnovare il bagaglio culturale della sinistra. Che la prima e le seconde debbano oggi servire a dividere in due il partito di cui è stato acclamato segretario con larga maggioranza, è inspiegabile. L’impressione è che una tale svolta, insomma, non farebbe bene a nessuno. E probabilmente, prima di tutto a lui.
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