Cambiare l’euro per salvarlo

L’Europa — la sua agenda politica e il suo futuro economico — è al centro delle campagne elettorali in corso nei maggiori Paesi dell’Unione. Sul fronte europeista, Angela Merkel ha parlato di modulo a «più velocità». Emmanuel Macron ha insistito sulla necessità di una maggiore integrazione; Matteo Renzi ed altri hanno dichiarato di volere un’Europa diversa e Paolo Gentiloni ha riconosciuto l’esigenza di accettare diversi gradi di ambizioni tra i partners. E’ evidente che si tratti di una questione centrale per tutti ed è altrettanto evidente che le agende nazionali — a dispetto della demagogia sulla sovranità — si intreccino con l’agenda sul destino dell’Unione. Cosa non si afferma con sufficiente chiarezza, però, è che il tema centrale per il futuro dell’Ue è l’euro. L’indebolimento dei Ventotto — svelato in tutta la sua drammaticità dal voto in Gran Bretagna a favore della Brexit — è legato alla crisi del debito che ha imbrigliato i Paesi dell’eurozona (quelli, per intenderci, che hanno adottato la moneta unica) in un lungo periodo di stagnazione economica, mettendo alle corde il modello di federalismo imperfetto che li governa. Il problema di credibilità e la conseguente incertezza strategica che vive l’Unione sono il prodotto indiretto di quella crisi.

E’ vero, la ripresa economica è finalmente arrivata — cresciamo, in media, più degli Stati Uniti —, ma portiamo i segni profondi di questi anni di crisi. I costi sociali sono stati enormi, molti degli stati membri dell’Unione monetaria sono ancora appesantiti dal debito pubblico e/o da quello privato. Per questo — anche in Paesi con performance migliori delle nostre — l’euro ha perso popolarità. Tanto più in Italia, eterno malato dell’Unione. L’euro non si tocca, assicurano Mario Draghi e Angela Merkel, ma la governance della moneta unica così come è ora — nonostante i progressi fatti negli ultimi anni — non funziona. Una dichiarazione, quindi, non del tutto credibile. Durante la crisi abbiamo visto come la vulnerabilità anche di piccoli Paesi abbia reso instabile l’intera regione e sperimentato l’impossibilità dell’Europa a intervenire poiché ogni intervento avrebbe comportato trasferimenti di risorse da un Paese all’altro, cosa non legittimata da una democrazia politica a livello europeo. In questi anni la Banca Centrale Europea — sola istituzione federale con un reale potere di intervento — ha evitato il peggio e ci ha portato lentamente verso la ripresa. Oggi, quel periodo di instabilità finanziaria è ben lontano, ma l’euro non è al sicuro. In parte — e forse soprattutto – per la fragilità dell’Italia.

Con il normalizzarsi dell’economia, la politica monetaria della Bce dovrà gradualmente riassorbire lo stimolo prodotto dall’acquisto sul mercato dei titoli sovrani. L’Italia perderà, quindi, il vantaggio di tassi d’interesse eccezionalmente bassi e ritornerà sotto pressione. Le prime avvisaglie sono evidenti: il mercato ha ricominciato a prezzare il maggior rischio del debito italiano. L’Italia potrebbe diventare di nuovo un fattore di instabilità dell’euro. Soluzioni tecniche ci sono ma tutte comportano una forma di condivisione del rischio tra Paesi e sono quindi impossibili senza un salto di democrazia politica europea. È credibile che questo avvenga oggi, quando una gran parte sempre più agguerrita dell’elettorato europeo chiede esattamente il contrario, piu sovranità nazionale e meno Europa? E se non è possibile, qual è la strategia al di là di interminabili negoziati tra le capitali dell’Unione e Bruxelles, negoziati che stanno erodendo la credibilità dell’Unione e che potrebbero comportare incidenti di percorso e una generale crisi di fiducia?

L’Europa non è una prigione ma — potenzialmente — uno straordinario strumento di progresso per i suoi cittadini e per l’economia globale. Chi oggi pensa questo deve avere il coraggio di affrontare il problema dell’euro e ammettere la necessità di ripensarne l’architettura non solo economica ma anche politica. Il successo di Martin Schulz in Germania e di Emmanuel Macron in Francia fa sperare che questa non sia solo una posizione velleitaria. Per l’Italia sarà difficile essere protagonista di un’evoluzione politica del genere. Realisticamente qualsiasi riforma dell’euro che vada nella direzione di una progressiva integrazione delle politiche di bilancio dovrà necessariamente comportare trasferimenti a favore del nostro Paese e probabilmente una parziale mutualizzazione del suo debito. Non solo questo richiederà contropartite, ma ci renderà politicamente deboli. Tuttavia, lo spazio per far sentire la nostra voce esiste. È legato a due cose. In primo luogo bisogna chiarire la nostra posizione sulla questione del governo della moneta unica. Qual è l’alternativa all’impianto di Maastricht a cui vogliamo aspirare? Il generico lamento sull’Europa dell’austerità è vacuo, inutile, controproducente. In secondo luogo è necessario rendere credibile e chiara la nostra agenda nazionale. Questo impone gambe politiche per farla avanzare, ma soprattutto stabilire le priorità e l’orizzonte entro cui realizzarle. Sarebbe bello sentirne parlare in questa stagione pre-elettorale.

CORRIERE.IT

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