Rifondare la sinistra per battere il pericolo populista
di EUGENIO SCALFARI
IL PRESIDENTE degli Stati Uniti d’America è l’uomo più potente del mondo occidentale, ma non soltanto. Lo è anche del mondo intero, se non altro perché col peso degli anni, anzi addirittura dei secoli, la sua potenza si è estesa anche in vaste zone dell’Africa e dell’Asia, ereditando i resti di quelle che erano state le colonie, i protettorati e le zone di influenza della Germania del Kaiser, dell’Inghilterra del Commonwealth, della Francia e delle loro monete, a cominciare dalla più importante di tutte e cioè la sterlina e il capitalismo bancario che ne fu l’espressione economica.
Questa immane potenza impersonata da un solo uomo eletto direttamente dal popolo, sia pure con il marchingegno dei cosiddetti grandi elettori, espone il mondo intero alle decisioni di quel personaggio che detiene anche personalmente la “chiave” dei depositi di bombe nucleari nelle loro varie versioni.
Non è il solo; quel tipo di bomba è anche nelle mani della Russia, del Pakistan, della Gran Bretagna, della Francia, della Corea del Nord, di Israele. Ma è probabile che ormai tutte le potenze cosiddette emergenti possiedano gli strumenti della devastazione di massa, la cui diffusione è un portato della scienza come è sempre stato nella storia per ogni genere di armi ed è diventato paradossalmente un elemento di equilibrio e di pace anziché di devastazione storica.
Una sola volta sterminò ed avvenne in Giappone da parte americana nell’ultima guerra mondiale per impedire ai giapponesi di proseguire quella sanguinosissima guerra contro gli Usa, cominciata a Pearl Harbor e conclusa dagli americani a Hiroshima.
Quest’arma quindi non è più uno strumento di devastazione ma di equilibrio e quindi non più di guerra. Ciò non toglie che gli Usa siano ancora la sola potenza militare per tante ragioni e il dollaro la moneta più potente in una società ormai interamente globale dove dominano, oltre agli Usa, le cosiddette potenze emergenti: la Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica. La Russia non è una potenza emergente: è emersa a dir poco tre secoli fa ed è lentamente cresciuta nelle sue armi, nella sua politica, nell’economia, nella cultura, quindi fa parte rilevante dei punti di riferimento della società globale.
E l’Europa? È la madre etnologica, antropologica, culturale, di tutto il mondo occidentale, largamente considerato perché quella sua maternità comprende anche larga parte dell’Africa, tutte le Americhe del Nord, del Centro e del Sud, l’Australia, l’Antartide. È la madre, a cominciare da quello che fu l’impero romano e poi sempre perché le Americhe del Nord e del Sud hanno avuto come madre e/o come padre le genti europee, a cominciare dai latini di Roma e poi ad arrivare fino ad oggi attraverso soprattutto le Americhe dove le civiltà aborigene sono praticamente scomparse e sono i popoli europei ad aver portato i loro elementi essenziali.
E tuttavia i popoli genitoriali dell’Occidente hanno operato e tuttora stanno operando in modo tale che la loro terra di origine, cioè l’Europa, non conta più nulla. Il perché è evidente: la società globale è tutta delle grandi potenze che hanno dimensioni continentali e poteri economici, monetari, militari, culturali, religiosi, idonei ad una società globale, ma il continente Europa non ce l’ha quel potere. Ha generato gran parte degli altri, ma non ha generato se stesso in forme moderne. Non è uno Stato, ma un insieme di Nazioni cioè di Stati a dimensione nazionale. Come struttura è una confederazione, con poteri notevoli ma suddivisi in 27 Stati nazionali (erano 28 ma con Brexit se ne è andato uno tra i più importanti) dei quali soltanto 19 hanno adottato sedici anni fa una moneta comune dando vita all’Eurozona con un solo organo sovrano: la Banca centrale europea.
Quanto al Parlamento europeo, anch’esso dovrebbe essere sovrano nel senso cioè di avere poteri autonomi rispetto agli Stati confederati perché eletto dal popolo sovrano dei 27 Stati dell’Unione europea. Il Parlamento tuttavia è eletto con un sistema improprio perché ciascuno dei 27 Stati confederati elegge, sia pur con la medesima legge elettorale, la propria delegazione, anche se le varie delegazioni sono formate da partiti che riflettono in Europa i partiti analoghi nelle rispettive nazioni. L’ideale sarebbe che il popolo sovrano europeo eleggesse i suoi rappresentanti sulla base di liste uniche votate in tutti i 27 Stati, ma non è così e questo indebolisce gli aspetti europei del Parlamento di Bruxelles.
La controparte politica del Parlamento, come avviene in tutti i Paesi democratici, è il governo, ma in una confederazione quel governo è formato dai presidenti del Consiglio di ciascuno degli Stati confederati. Quindi il Parlamento ha come interlocutore i 27 capi dei governi membri dell’Unione, così come avviene per i 19 Paesi che hanno adottato la moneta unica e la Banca centrale come solo organo al quale riferirsi. Gli altri Paesi dell’Unione hanno conservato organi propri e quindi hanno un livello di autonomia ancora maggiore di quello confederale per assenza di moneta comune. Questo è il vero aspetto della struttura istituzionale dell’Europa: non ha la figura di uno Stato unitario o federale che dir si voglia. Questa è la sua grande debolezza in una società globale, cioè mondiale.
***
I fatti nuovi che si sono verificati in questi mesi ed alcuni in questi giorni sono i seguenti: 1. Donald Trump ha assunto una politica protezionistica, anti-immigratoria e il muro in costruzione ai confini con il Messico ne è non il solo ma il più eclatante esempio.
2. Incoraggia tutti i movimenti e partiti anti-migratori d’Europa e in particolare l’Inghilterra, il partito francese di Le Pen, i movimenti anti-euro e anti-immigrati presenti in tutti i Paesi d’Europa (in Italia la Lega di Salvini, il partito di Meloni, il Movimento 5 Stelle).
3. È molto vicino a Putin.
4. Diventato improvvisamente amico con la Turchia di Erdogan.
5. È altrettanto vicino allo Stato di Israele gestito da Netanyahu.
6. È contrarissimo all’Europa in genere e alla Germania di Merkel in particolare.
7. Non ha alcuna amicizia con la Banca centrale europea.
8. Guarda con diffidenza alla Cina, al Messico, a Cuba e anche al Brasile e agli altri Stati del Sud America, nonché al Canada.
Insomma c’è stata una svolta di fondo nell’America di Trump: da potenza democratica è diventata in larga misura conservatrice e populista. Donald però — e questo è l’aspetto positivo — è decisamente schierato contro l’Isis e deciso ad interventi militari più diretti per distruggere il terrorismo islamico. Del governo italiano approva la politica anti-migratoria di Gentiloni ed è pronto a collaborarvi.
C’è ancora un risvolto nella politica di Trump: non ha alcuna considerazione del problema dei poveri e tantomeno di papa Francesco che dei poveri del mondo ha fatto l’aspetto più significativo della sua Chiesa missionaria. Trump è un sostenitore del capitalismo nella sua visione protezionista. I poveri non li considera suoi nemici ma di fatto li considera inesistenti. Comunque pensa che il capitalismo rampante aumenti i posti di lavoro e quindi anche il popolo povero. Il capitalismo protezionista e rampante, può probabilmente accrescere l’occupazione e quindi può accrescere i propri profitti ed anche i propri investimenti e l’occupazione a masse di giovani disoccupati.
Questo è il Trump come l’abbiamo conosciuto in queste prime settimane del suo lavoro, l’America è tuttavia una democrazia e smantellarla non è affatto facile tanto più che il potere della magistratura è ancora molto vigile e Trump se ne sta accorgendo proprio in questi giorni.
L’Italia e l’Europa. Ecco i fatti rilevanti.
La cancelliera Merkel e Mario Draghi hanno avuto nei giorni scorsi un ampio confronto dal quale è emerso un ampio accordo positivo: la doppia velocità usata da Merkel per indicare la struttura dell’Europa economica e sociale è stata chiarita con Draghi. Merkel non ritiene che le caratteristiche dell’Europa economica e sociale siano la chiusura circolare attorno ai Paesi più evoluti e dinamici nella crescita delle rispettive economie, quindi un sistema chiuso e non aperto. Ma le reazioni che questo modo di vedere ha suscitato hanno suggerito a Merkel una svolta totale che con Draghi ha assunto caratteristiche positive e non più negative: tutti i 27 Stati dell’Unione possono anzi debbono praticare una politica di crescita e non troveranno nessuno sbarramento, al contrario, troveranno l’appoggio delle potenze più dinamiche e più avanzate nella propria economia. In particolare per quanto riguarda gli Stati che hanno adottato una moneta comune Draghi continuerà la sua politica monetaria espansiva, applicandola nei modi più adatti allo Stato in questione. Draghi ha aiutato il governo tedesco a raggiungere il 2 per cento di inflazione, che è il tasso previsto come ottimale nello statuto della Bce. Naturalmente il governo di Merkel ha affiancato a questo appoggio monetario una serie di interventi economici che hanno rafforzato ulteriormente la sua economia e le sue capacità di esportazione. Ora — ha suggerito Draghi — sarebbe il momento che la Germania riversasse a beneficio dei propri lavoratori e imprenditori le sue capacità economiche aumentando i consumi di massa e gli investimenti interni. Per quanto riguarda gli altri Paesi Draghi è incoraggiato (ma non aveva bisogno di tale incoraggiamento) a praticare la politica che giudicherà più opportuna per ciascuno di quei Paesi dal punto di vista non solo monetario ma anche per la qualità degli investimenti, la produttività, la diminuzione sistematica delle diseguaglianze sociali ripartendo il reddito tra i meno abbienti e i più abbienti.
È evidente che su questi chiarimenti Merkel si batterà sul terreno elettorale tra pochi mesi auspicando anche che i socialisti di Schulz, pur continuando la loro politica socialmente più avanzata, alla fine confluiscano nella grande coalizione dove Merkel vorrà anche i liberali, per contrastare in Germania e dovunque i movimenti populisti antieuropei e anti moneta comune. Si intravvede dunque un forte mutamento della politica tedesca e un ruolo ancor più forte di quanto già era assegnato alla Banca centrale europea.
L’altro aspetto della politica italiana, Eurozona a parte, riguarda Renzi e coinvolge anche in pieno il Partito democratico che sta cambiando volto. Somiglia sempre meno all’Ulivo di Prodi e al Pd di Veltroni. Ci sono ora varie correnti: quella renziana, quella dei ministri del Pd presenti nel governo Gentiloni (a cominciare dallo stesso presidente del Consiglio): vogliono gestire la legislatura senza elezioni anticipate, ma non sono contrari, alcuni anzi nettamente favorevoli, ad una riforma sostanziale del partito e all’investitura di Renzi a capo del governo nella nuova legislatura del 2018.
La terza corrente è quella della dissidenza che a sua volta si divide in due: chi vuole combattere Renzi e sostituirlo al vertice del partito (D’Alema, Emiliano, Speranza, Bersani) e altri che vogliono invece una collocazione nuova nel partito, di maggior peso sulla politica e solo in questo caso sono favorevoli a sostenere Renzi per le elezioni nel 2018.
Credo che questa sarebbe la giusta strada. Renzi deve cambiare il partito, esaltare una sorta di giovane guardia territoriale che prenda il posto dei circoli, ma dove sia molto presente anche la sinistra democratica quella che sta dentro e quella che sta nelle immediate vicinanze del partito, appoggiando la generazione bersaniana e perché no, anche quella di D’Alema. Veltroni purtroppo sembra indisponibile a incarichi politici ma non a quelli culturali purché siano consistenti e non per bambini.
Io penso che sia questo il buon futuro del Pd. Se Renzi non abbandona la sinistra ed anzi ne fa, insieme a quelli più fedeli a lui, lo stato maggiore del partito la sua battaglia è vinta in partenza.
Il problema che si pone all’Italia è il tripolarismo. Si pone in molti altri Paesi d’Europa, a cominciare da quello a noi più vicino, cioè la Francia. Ma comunque anche da noi è un pericolo molto notevole.
Per abbatterlo ci vuole una rifondazione della sinistra interna che utilizzi quanto c’è di efficace e moderno nella cosiddetta dissidenza. E ci sia anche, ho già detto, una sorta di giovane guardia che prepari il ricambio generazionale. Si dovrebbe rileggere la storia in questi casi e quella della Dc in particolare. Governò dal 1948 fino al ’92, quando la Procura giudiziaria presieduta da Borrelli a Milano cominciò la politica delle Mani Pulite.
La Dc aveva nel suo seno, come quasi tutti gli altri partiti, il verme della corruzione, ma aveva anche uomini politicamente molto notevoli e non corrotti, a cominciare da De Gasperi e poi dopo di lui Fanfani, Segni (padre e figlio), Zaccagnini, Cossiga, e soprattutto Aldo Moro e De Mita. Furono alleati con Ugo La Malfa, poi con Nenni, poi perfino con Berlinguer ai tempi in cui bisognava opporsi e combattere le Brigate Rosse.
La storia insegna. Bisogna rileggerla spesso e trarne vantaggio per il proprio Paese.
REP.IT