Lettera aperta a chi esalta quelli dalle Mani pulite
Caro Massimo Fini,
ieri mi hai dedicato un lungo articolo sul Fatto Quotidiano per confutare quello breve che ho recentemente scritto per segnalare il flop delle celebrazioni per il venticinquesimo anniversario dell’inchiesta Tangentopoli.
Difendi a spada tratta i magistrati di quella stagione, tratti con cinismo i morti e i feriti di quella stagione, neghi che i pm di quel pool soprattutto citi Di Pietro – avessero mire e ambizioni politiche, mi accusi di servilismo e racconti un aneddoto vero: «Davanti a testimoni scrivi Sallusti mi criticò, ma disse che mi riteneva l’ultimo giornalista libero». Quest’ultima cosa la confermo, e nella libertà che ti riconosco c’è anche quella di sbagliare.
Potrei raccontarti di ragazzini di allora che ancora oggi, a distanza di anni, sono in cura per lo shock subito vedendo i loro padri portati via in piena notte da uomini entrati in casa con il mitra spianato (non parliamo di trafficanti di droga o rapinatori, ma di amministratori poi risultati innocenti). Potrei ricordati la curiosa coincidenza che tre dei cinque pm di quel pool (Di Pietro, D’ Ambrosio e Colombo) hanno poi fatto politica nelle liste del Pd o avuto incarichi per conto del Pd. Potrei ribattere tante altre cose sulla limpidezza e sulle vere mire di Di Pietro in particolare. Ma non mi crederesti, mi ritieni fazioso. E allora ti propongo una lettura interessante.
È l’articolo a firma Luigi Corvi uscito sul Corriere della Sera il 12 marzo 1997, giorno in cui vennero depositate le motivazioni con cui Di Pietro fu assolto dal tribunale di Brescia dall’accusa di concussione (e con lui Paolo Berlusconi, Previti e altri da quella di aver complottato contro il Pm).
Chiedo scusa al bravo collega per lo scippo non autorizzato e riproduco alla lettera:
***
Antonio Di Pietro lasciò la toga perché voleva entrare in politica. Dietro quel gesto non ci furono complotti, anche se i fatti raccontati da Giancarlo Gorrini erano veri: «Alcuni rivestivano caratteri di dubbia correttezza, se visti secondo la prospettiva della condotta che si richiede a un magistrato, altri erano decisamente idonei ad un’iniziativa sul piano disciplinare». Tuttavia l’apertura e la rapida archiviazione dell’inchiesta ministeriale nata dalle accuse dell’ex presidente della Maa non fu la causa delle dimissioni di Di Pietro e i quattro imputati (Paolo Berlusconi, Cesare Previti, Ugo Dinacci e Domenico De Biase) non misero in atto alcun complotto per il semplice motivo che non avevano interesse a far dimettere il pm di Mani Pulite.
Queste in sostanza le motivazioni, depositate ieri, con cui il 29 gennaio la seconda sezione del tribunale di Brescia ha assolto tutti gli imputati dall’accusa di concussione. In quasi duecento pagine i giudici analizzano nel dettaglio i fatti (…). Sui rapporti poco corretti intercorsi tra Di Pietro e Gorrini si era già soffermato il gip nell’ordinanza di rinvio a giudizio. Ma il tribunale, sviluppando gli stessi concetti, va oltre. «È indubbio – scrivono i giudici – che i fatti raccontati da Gorrini si erano realmente verificati (la prestazione di attività lavorativa di Cristiano Di Pietro in favore della Maa, l’assegnazione di alcune cause a Susanna Mazzoleni da parte della Maa, l’erogazione di un prestito da parte di Gorrini, la cessione a Di Pietro, sempre da parte di Gorrini, di un’autovettura recuperata dalla Maa e trasformata da Di Pietro stesso in prestito, l’intervento di Di Pietro per ottenere che D’Adamo e Gorrini erogassero prestiti a Rea onde favorire l’estinzione di debiti consistenti)».
Secondo il tribunale, Tonino – che della deposizione di Gorrini aveva appreso in tempo reale da un giornalista – aveva di che preoccuparsi. «Era in gioco il suo prestigio come magistrato, come magistrato onesto, come persona dai comportamenti cristallini, e proprio questo prestigio era minacciato a causa di leggerezze commesse e per le quali egli era pronto a fare ammenda. Era in gioco, in definitiva, un ruolo e un’immagine». (…)
I fatti denunciati dall’ex presidente della Maa «rappresentavano per Di Pietro una minaccia, per giunta avente il requisito della verosimile serietà» (…). Tonino in effetti si preoccupò molto e preparò subito una memoria difensiva «in previsione di essere chiamato per chiarire la vicenda», telefonò all’allora ministro della Difesa Previti (…) «chiedendo addirittura un intervento in suo favore del ministro Biondi». (…)
Le ragioni delle dimissioni esposte da Di Pietro (in primo luogo i molteplici tentativi di delegittimazione) «sono – secondo il tribunale – talmente troppe e troppo eterogenee da sembrare una congerie alquanto scontata….». È vero che il pm di Mani Pulite aveva accumulato stanchezza fisica e psicologica, ma la molla decisiva che lo spinse a lasciare la toga fu l’intenzione – maturata già nella primavera del ’94 – «di intraprendere l’attività politica, ovvero di ottenere incarichi pubblici di maggior rilievo». E quando a Silvio Berlusconi disse di non essere stato d’accordo sull’invio dell’avviso di garanzia, mentì perché era «alla ricerca iniziale di probabili alleanze» politiche. Infine Tonino – secondo i giudici – sino all’ultimo non rivelò i suoi progetti ai colleghi perché temeva di «inquinare quella sua indiscussa leadership all’interno e all’esterno del pool con consequenziali ripercussioni nell’immagine esterna» e c’era il rischio che gli altri pm lo rendessero «meno partecipe dell’attività giudiziaria».
***
Caro Massimo, questo dicono le carte. Se questi sono gli eroi che ammiri, libero di farlo. Ma riconosci a me la libertà di pensarla diversamente, senza per questo dover essere servo di qualcuno.