Non si guarisce con spese e tasse

Stiamo vivendo un momento di lotta politica convulsa forse riflesso del tentativo del sistema rappresentativo di riorganizzarsi e metabolizzare così le due importanti novità di questa fase: il tripolarismo dell’offerta e l’accentuata mobilità della domanda (gli elettori). A molti tutto ciò appare come un travaglio perché temono che al termine dei giochi questa ristrutturazione produca nient’altro che ingovernabilità. Si tratta sicuramente di timori che vanno condivisi, caso mai possono essere solo temperati dalla considerazione che il male è comune. Fenomeni analoghi si stanno verificando non solo da noi, non c’è un Paese avanzato che non viva con trepidazione e ansia le discontinuità del nostro tempo. Detto che non costituiamo un’eccezione, dobbiamo però essere coscienti di correre qualche rischio più di tutti gli altri. Il pericolo è che l’intensità della lotta politica e i riposizionamenti in corso si coniughino con uno slittamento — se non un vero ritorno indietro — della cultura economica. Non mi riferisco tanto alle forze che vengono definite sbrigativamente populiste e che del rovesciamento della prassi del risanamento finanziario hanno fatto addirittura un tratto identitario (fino a proporre l’uscita dall’euro), parlo di filoni presenti dentro il perimetro delle due grandi famiglie politiche. Nel centrodestra italiano l’offensiva del cosiddetto sovranismo sta aprendo più d’una breccia all’interno dello schieramento che diede vita ai governi Berlusconi, non solo tra chi è seduto in platea ma anche tra chi opera in cabina di regia.

Non è un caso, del resto, che la nomina di Antonio Tajani al vertice di una delle massime istituzioni comunitarie, che pure rappresenta il maggiore successo del centrodestra italiano in campo europeo, non sia stata rivendicata con il calore e l’orgoglio che era lecito attendersi. Anche nell’ampio arco di forze che si muovono dentro il centrosinistra il rischio di un arretramento della cultura economica è parso evidente negli ultimi giorni. Si sono ascoltati accorati appelli a cambiare totalmente indirizzo seppellendo nella stessa fossa privatizzazioni, liberalizzazioni, riforma dell’amministrazione, puntando al contrario a riattivare la grande e lunga mano dello Stato per finanziare, assumere, sussidiare, inventare posti di lavoro. Il guaio è che a pronunciarli spesso sono figure pubbliche dotate di un buon background politico-culturale e che negli anni hanno ricoperto ruoli di responsabilità, dando peraltro buona prova di sé sul versante del risanamento della finanza pubblica. Per giustificare questo salto di carreggiata gli stessi portano come motivazione principale la necessità di dare una risposta alla disuguaglianza e al peso che questo tema ha assunto nell’orientare il consenso degli elettori di tutto il mondo.

Sia chiaro, la centralità delle differenze economiche e di chance è sacrosanta ed è di estremo interesse seguire il serrato dibattito in corso a livello internazionale, confronto che ha il solo limite di essere ancora molto focalizzato sulle cause piuttosto che sui rimedi. La traduzione italiana di questo dibattito però è sciatta, salta a piè pari una ricognizione puntuale sugli effetti della globalizzazione (e sui veri vinti), sottostima le differenze generazionali e comunque pensa di risolvere tutto con una maxi-gettata di spesa pubblica. Come tanti Canadair che rovescino quantità esorbitanti di acqua per spegnere gli incendi. Purtroppo non è così facile, bisogna quantomeno fare i conti con i rubinetti della nostra finanza pubblica dai quali non potrà mai essere scaricato tutto quel liquido, pena replicare la disavventura greca. Quanto poi all’idea che la disuguaglianza si combatta spendendo-e-tassandomi sentirei di avanzare un’obiezione di fondo: tradizionalmente politiche di questo tipo da noi hanno finito per acuire le sperequazioni e ampliare la distanza tra Stato e cittadini.

ORRIERE.IT

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