Matt Damon e la Grande Muraglia, ecco come nasce un film global

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LOS ANGELES. È la prima grande coproduzione tra Pechino e Hollywood. 150 milioni di dollari, una star del calibro di Matt Damon (affiancato da Pedro Pascal e Willem Dafoe) e alcuni tra i più noti attori cinesi, come Andy Lau, e rockstar come Junkai Wang e Lu Han. E diretto dal celebre regista Zhang Yimou. La grande muraglia, in sala il 23 febbraio, è una scommessa non solo “diplomatica” ma anche tecnologica: girato in 3D e con effetti speciali e tecniche visive per le scene d’azione mai sperimentate prima. Prodotto dalla Legendary Pictures – che è stata acquistata lo scorso anno dal colosso cinese Wanda Group – Universal e Atlas Entertainment, il kolossal è stato girato interamente in Cina: ambientato nel nord del paese, in una non precisata antichità, il film narra le vicende del mercenario William Garin (Damon) e il suo compagno Tovar (Pascal), che scoprono il potere della polvere da sparo prima di venir catturati dai guerrieri dell’Ordine senza nome, soldati che passano la vita a prepararsi agli attacchi ciclici, ogni 60 anni, di voraci e feroci mostri che seminano morte e devastazione. Guidati dal generale Shao e dalla sua fedele guerriera Lin Mae (Jing Tian), un esercito di 100mila soldati pronti a sacrificarsi per difendere il paese dalle mostruose creature, tenute a bada dalla Grande Muraglia, vengono aiutati da Garin e dal suo micidiale arco. Ne abbiamo parlato con Matt Damon, fresco del successo come produttore di Manchester by the Sea, pluricandidato agli Oscar.

Matt Damon, ci racconta questa sua esperienza cinese?
“Un’esperienza ovviamente incredibile. Sognavo di lavorare un giorno col grande Zhang Yimou, che ammiro da sempre: vederlo muoversi su un progetto così enorme è stato fantastico. Ho vissuto in Cina per sei mesi – per le riprese – quindi mia moglie e le mie figlie sono venute con me. Un vero e proprio trasferimento. Le figlie studiavano con un insegnante privato, non c’era tempo per iscriverle alle scuole lì in Cina, anche se sarebbe piaciuto a tutti. E ora non vedono l’ora di tornarci”.

Come è stato lavorare con una troupe per metà cinese?
“Una troupe davvero global. C’erano cento interpreti sul set! La grande muraglia è stata la più grande co-produzione Est-Ovest realizzata fino ad ora. È stato fantastico, eravamo consapevoli di essere i primi, una bella stretta di mano, molto salutare di questi tempi. Il cinema può essere veramente la cosa più inclusiva che esista”.

Mesi fa era stato accusato di aver preso un ruolo che sarebbe potuto andare ad un attore cinese. Come risponde oggi?
“Accuse infondate come ormai tutti sanno. La storia è sempre stata imperniata su un occidentale in questa Cina mitologica. La gente pensava si trattasse di un film sulla costruzione della Grande Muraglia e dicevano: che cavolo c’entra Matt Damon? Il film parla di tutt’altro. Non fermiamoci al titolo. La cosa che più mi è dispiaciuta è che un giornale che rispetto come The Atlantic ne abbia scritto un articolo. Da Twitter te lo puoi aspettare, ma non da un giornale serio”.

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C’è una metafora dietro i mostri feroci e onnivori che attaccano la muraglia e distruggono eserciti e città?
“Certo, è la metafora dell’avidità, e risale a un’antica iconografia e mitologia cinese della testa del mostro, che rimane solo quella perché divora il suo stesso corpo. Ma film come questo sono principalmente di evasione pura: volare sulla muraglia diretto da Yimou. Una meraviglia”.

Lei è avido di qualcosa?
“Certo: lavorare con grandi registi, non mi basta mai. Dopo oltre 20 anni di cinema mi sento incredibilmente fortunato, ma sento che non ho finito, e in questo sì, sono molto avido”.

“The great wall”. Impossibile non pensare al muro che vuole costruire il presidente Trump…
“Sarà il suo film preferito, di Trump dico (ride). Qui in America ognuno è un migrante, non puoi cominciare a dire “da oggi nessuno può venire”. Non è questo che sente la maggioranza del paese. Mi dispiace che ci sia questo movimento mondiale verso il nazionalismo, ma era prevedibile: se stiamo attenti e vigili e uniti, possiamo combattere queste tendenze isolazioniste e autoritarie”.

Che si può fare a parte scendere in piazza e discutere?
“È la domanda che tanti si pongono. La protesta è un nostro diritto sacrosanto, i politici in genere ascoltano e rispondono, perché come noi attori, il loro posto di lavoro non è mai garantito: quando sentono agitazioni reagiscono. Dobbiamo continuare così”.

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