L’Italia lancia la sfida alle pillole d’oro. “Giù i prezzi o le produciamo noi”

L’Agenzia del farmaco vuole contrastare il fenomeno dei viaggi della speranza per l’acquisto a buon mercato dei farmaci in India

paolo russo
roma

Produrre in proprio, negli stabilimenti farmaceutici militari di Firenze, le pillole d’oro anti-epatite, anteponendo al rispetto dei brevetti le più alte ragioni di tutela della salute pubblica. Roba da far mandare in fibrillazione big-pharma e i mercati finanziari di mezzo mondo che la spingono, quando a tentare la mossa furono India e Sudafrica. Figuriamoci se a minacciare il passo è l’Italia, industrializzato Paese del G7. Anche perché quel che vale oggi per i malati di epatite C, potrebbe valere domani per molti altri super farmaci dai prezzi stratosferici. Come quello da 300mila dollari già commercializzato negli Usa e che promette di prolungare l’aspettativa di vita dei malati di tumore al polmone di 5 anni.

La prossima settimana parte la trattativa no-stop per ricontrattare i prezzi dei medicinali anti-epatite. Obiettivo dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, è eradicare in 3 anni il virus, curando 298mila persone con viremia accertata. Per questo il governo è pronto a portare da 226 a 273 i centri specializzati per il trattamento e a spendere larga parte del miliardo e mezzo già stanziato per i farmaci innovativi. Che non basteranno se la Gilead, la multinazionale produttrice di Sovaldi e Harvoni, i medicinali che curano tutti e quattro i ceppi dell’epatite C, continuerà a sparare alto. Per ora si parla di un prezzo intorno ai 13mila euro.

L’Aifa non è disposta a sborsarne più di 4mila, la stessa cifra pagata oggi per gli ultimi scaglioni degli oltre 67mila pazienti già trattati. «Se non prevarrà l’etica del buon senso eradicheremo il virus lo stesso, ricorrendo a tutte le soluzioni possibili», minaccia Mario Melazzini, il direttore generale dell’Aifa, che da anni combatte la sua battaglia contro la Sla e che meglio di altri comprende le ragioni dei malati. Poi è lui stesso a chiarirci quali siano le armi segrete. La prima «è seguire l’esempio della Francia, consigliando ai centri specialistici che assistono i malati di epatite gli altri farmaci di pari efficacia, che non combattono tutti i ceppi del virus, ma quelli comunque più diffusi, il I e il IV». Come dire lasciare le briciole alla Gilead. L’altra è quella destinata a fare più scalpore. «Se non accetteranno di ridurre i prezzi –cala giù l’asso Melazzini – potremmo arrivare a chiedere al governo come estrema ratio l’applicazione degli accordi internazionali Trips del 2006, che in caso di emergenze di salute pubblica consentono agli Stati il ricorso alla licenza obbligatoria». Tradotto: produrre pillole di Stato sbattendosene del brevetto. In realtà, come spiega lo stesso dg dell’Aifa, questa deroga l’accordo Trips la prevede solo per Paesi dal Pil più modesto. Ma ad acconsentire di forzare la mano ci sarebbe anche il regolamento Ue 816/2016 che fa riferimento sempre alla licenza obbligatoria per necessità di salvaguardia della salute pubblica.

 

«Chiediamo alle aziende un prezzo etico perché intendiamo estendere anche ai pazienti meno gravi il diritto alla cura, altrimenti il virus continuerà ad infettare altre persone. E non dimentichiamo –aggiunge Melazzini – che l’Italia è uno dei Paesi con più alta presenza di hcv».

 

Che qualcosa in più si possa fare lo racconta la storia di Gilead Sciences, che non produceva pillole quando nel 2012 ha fatto l’affare, acquistando per 11,2 miliardi di dollari Pharmaset, che Sovaldi l’ha scoperto. Quella pillola già il primo anno ha cominciato a fruttare 20 milioni di euro al giorno, 15 miliardi l’anno. Una miniera d’oro sulla quale il Senato americano ha a suo tempo avviato un’inchiesta, scoprendo che, la ricerca e lo sviluppo del Sovaldi sarebbero costati solo 62,4 milioni di dollari, cioè una parte insignificante rispetto ai ricavi ottenuti grazie alla politica dei prezzi stellari.

 

Che i costi sostenuti per la ricerca non giustifichino un salasso del genere lo dimostra anche il fatto che in Egitto, dove c’è meno da mungere, il super-farmaco è stato offerto a soli 700 dollari a trattamento. Il 98% in meno del prezzo sparato in Usa e in Europa. In Italia questo significa dover entrare in farmacia e sborsare ben 74 mila euro. A meno che non si rientri nei rigidi parametri che danno diritto al rimborso. Ma bisogna essere arrivati alla cirrosi conclamata, al tumore o al trapianto di fegato. E anche su questo l’Aifa farà pressing per calmierare i listini. Ponendo fine a quei viaggi della speranza verso l’acquisto a buon mercato dei farmaci in India, che di certo non fanno onore al nostro welfare.

LA STAMPA

Rating 3.00 out of 5

No Comments so far.

Leave a Reply

Marquee Powered By Know How Media.