La legge di bilancio, un segnale (subito) sui conti

Un fantasma turba i sonni di Gentiloni e Padoan, ma non di Renzi, dei tanti litiganti del Pd e di chi è già in campagna elettorale. È la legge di bilancio del 2018 che dovrà essere scritta in ottobre. Il governo forse spera di non doverla fare. E se si votasse prima, anche in settembre, come in Germania, non la farà. Non sappiamo con che regole elettorali voteremo, quando voteremo, che tipo di governo, forse di coalizione, avremo. Ma sappiamo, purtroppo, che una legge di bilancio si dovrà fare. Non si scappa. Il deficit dovrà teoricamente scendere all’1,2 per cento. Non vi saranno più margini di flessibilità: ne abbiamo avuti per 19 miliardi in due anni. E, soprattutto, non si potranno più disinnescare, in disavanzo, clausole di salvaguardia — gli aumenti di Iva e accise — per quasi 20 miliardi. L’intera manovra del 2018 è già ipotecata visto che quella di quest’anno, a conti fatti, è stata intorno a 27 miliardi.

Incuranti di questa prospettiva, con colpevole leggerezza, discutiamo di reddito di cittadinanza, vagheggiamo nuovi interventi dello Stato (con quali soldi?), mettiamo in dubbio le privatizzazioni. E promettiamo quello che un Paese indebitato (al 133 per cento del Pil) non può fare in ogni caso, anche se fosse fuori dall’Europa. Se è così difficile operare una correzione ai conti, richiesta da Bruxelles, dello 0,2 per cento (su un deficit previsto per il 2016 del 2,3), come verrà affrontata la montagna di finanza pubblica che si staglia all’orizzonte ed è maledettamente più vicina di quanto non si pensi? Silenzio.

Il problema è rimosso, come se la prossima legislatura fosse a una distanza siderale e il governo che verrà di un altro Paese. Nessuno riflette sul fatto che il prossimo esecutivo, di qualunque specie, sarà chiamato a un compito arduo, magari a opera di ministri che avranno ottenuto voti spargendo promesse come petali di rose. Il rischio di fallimento immediato di un nuovo governo a inizio legislatura aprirebbe scenari che non è il caso di evocare, certamente rinforzerebbe il vento nelle vele delle forze politiche antisistema. Se si votasse a settembre, come qualcuno prevede, non è detto che si scongiuri l’eventualità di un esercizio provvisorio che avrebbe un impatto fortemente negativo sui mercati e sul costo del rifinanziamento del debito.

Ecco perché sarebbe il caso di parlare subito della legge di bilancio del 2018, dando prova di serietà e responsabilità. Verso noi stessi, non verso l’Europa. Si discute molto di post verità e di fake news, ma le false promesse sono doppiamente dannose. Illudono prima e si pagano dopo. Una discussione ampia è necessaria e dovrebbe tener conto del fatto che il Quantitative easing (Qe) della Banca centrale europea sta finendo. E, probabilmente, la prossima legge di bilancio dovrà essere fatta con l’ipotesi realistica di non poter più godere dell’ombrello degli acquisti dell’istituto di Francoforte guidato da Mario Draghi. L’inflazione tedesca è ormai vicina al 2 per cento, l’obiettivo principale del Qe.

La pubblicazione in aprile del Def (Documento di economia e finanza) potrebbe essere l’occasione per delimitare le cose possibili, per tracciare il terreno della serietà, materia prima assai poco diffusa. L’opportunità di dare un segnale di contenimento del debito impegnandosi, per esempio, a mantenere un buon avanzo primario (saldo fra entrate e spese al netto degli interessi) che pure è in calo da anni. Nel 2016, secondo le stime, è di poco inferiore al 2 per cento. Va sfatato, una volta per tutte, il mito che la crescita si faccia indebitandosi. Il Def potrà indicare una serie di azioni percorribili anche nel clima elettorale, di per sé poco idoneo al contenimento delle spese. Se si vuole veramente mantenere la promessa di Renzi di ridurre l’Irpef nel 2018 forse si può e si deve contenere già da quest’anno la spesa, agendo per esempio sulle deduzioni e sulle detrazioni fiscali. Risparmiare di più non è impossibile. L’obiettivo di dieci miliardi all’anno è realizzabile. Ma se solo si pensa che il piccolo aggiustamento richiesto da Bruxelles verrà fatto probabilmente per un quarto con taglio alle spese e il resto con tasse, si capisce quanto siano elevate le resistenze e complessi gli interventi in corso d’anno.

La prudenza di Gentiloni è comprensibile. Il premier guarda con la giusta preoccupazione lo sfarinamento del Pd, che non può che indebolire l’esecutivo. È ovviamente restio ad adottare misure con un saldo politico negativo, destinate a far perdere voti alla propria parte. Ma i margini per rafforzare, con una più incisiva politica economica, una ripresa confermata anche dallo straordinario surplus commerciale del 2016 (51,6 miliardi), ci sono tutti. Puntando di più sulle misure pro crescita.

In uno studio che sarà pubblicato nei prossimi giorni, si legge che l’Italia è agli ultimi posti in Europa nella percentuale di spesa pubblica che sostiene la crescita finanziando formazione e innovazione. Non è detto che un po’ di coraggio e la virtù della trasparenza e dell’onestà dei messaggi pubblici non possano essere persino premiati alle urne. Non siamo, fino a prova contraria, un popolo di irresponsabili.

CORRIERE.IT

 

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