E Boschi si sfoga con l’ex premier: «Dovrebbero chiederci scusa»
Visto che lo pressavano per fare una telefonata, alla fine Renzi ha telefonato. A Emiliano però, non a Bersani. Che poi tutta questa enfasi su una chiamata, ha poco senso: per mesi Prodi si negò a D’Alema dopo il «complotto».
Gli inviti
E siccome Renzi sente di essere nelle stesse condizioni in cui si trovò vent’anni fa Prodi, per giorni ha rigettato il suggerimento di Franceschini e di Delrio, che lo esortavano a incontrare Bersani «per non passare alla storia come il segretario della scissione». Pare che il leader del Pd abbia grillinamente rigettato la proposta. Anche quando è stata derubricata a telefonata, anche quando ci ha provato Lotti, ha fatto seguire al «vaffa» una considerazione: «Se persino dagli amici mi devo sentire abbandonato…». Che poi non era così, semmai l’idea era di mostrarsi disponibile a un ultimo tentativo di mediazione.
Lo sfogo
Proprio quello che va in scena in queste ore. Ma quale può essere il punto di compromesso per evitare la scissione di un partito che da tre anni vive una secessione? Come si può tenere insieme una minoranza che si è divisa dalla maggioranza sull’economia, sul lavoro, sulla scuola, che si è scontrata in Parlamento sulla legge elettorale e nelle piazze sulla riforma costituzionale? L’interrogativo è stato posto dalla Boschi, che ha addosso i segni dello scontro, che accetta il silenzio come forma di espiazione, e che (anche) per questo si è espressa con un sovrappiù di virulenza con Renzi. «Scusa Matteo, ma quali aperture dovremmo fare e a chi? A quelli che si sono sempre messi di traverso? A quelli che hanno persino brindato la sera del 4 dicembre? A quelli che vogliono solo la tua testa? Adesso basta. Dovrebbero essere loro a chiedere scusa».
La fine di un’era
Dalle parole del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, si capisce che il conflitto appare incomponibile, perché non è legato alla data congressuale e nemmeno ai posti da capilista elettorali. Non è un problema di maggiori spazi per le truppe renziane, come si è lasciato sfuggire Delrio. È una questione più profonda: è la fine di un’era. Parisi, l’inventore dell’Ulivo, ne è consapevole e racchiude l’amarezza in un paradosso: «Per salvare il Pd, sarei disposto a iscrivermi a Forza Italia in modo da salvare il centrodestra». È il bipolarismo che è imploso, ingoiando i grattacieli che su quel terreno erano stati costruiti. E la finzione è un modo per prendere tempo, se è vero che persino l’intesa sulla legge elettorale – unico punto che tiene ancora insieme tutti i democratici – si rivela un ologramma e si dimostra inapplicabile. «Smettiamola con questa str…», ha urlato infatti il deputato Lau-ricella l’altra sera, alla riunione del gruppo della Camera: «Con il Mattarellum solo settanta di noi tornerebbero in Parlamento». Problema superato: dopo la spasmodica attesa per la sentenza della Consulta sull’Italicum, la riforma del sistema di voto è stata accantonata.
I contraccolpi
Per tre anni due partiti hanno vissuto insieme. E alla vigilia di una sempre più probabile separazione, in molti si chiedono quale possa essere il contraccolpo. Così come Parisi osserva timoroso lo sfaldamento del centrodestra, dall’altra parte c’è chi ha gli stessi motivi di ansia e preoccupazione. Ecco perché Confalonieri ha alzato il telefono per parlare con un autorevole esponente del governo. «Qual è la strategia?», ha chiesto il patron di Mediaset, che si accredita come un semplice lobbista ma in realtà ragiona di politica: «La scissione sarebbe un errore. Nascerebbe un altro partitino di sinistra. Si comprometterebbe tutto». In effetti la storia (e lo storico dei risultati elettorali) evidenzia come la rottura di un partito sia sempre stata a saldo negativo nelle urne, nel senso che la somma dei voti presi dalle forze separate non ha mai raggiunto il livello di consensi ottenuto insieme prima della scissione. E siccome la prospettiva di un governo di larghe intese era già considerata ad alto rischio, vista l’avanzata del fronte trumpista-lepenista, l’impresa apparirebbe più complicata con l’implosione del Pd.
Quanto possa durare la legislatura diventa un problema secondario, o almeno Gentiloni fa mostra di non preoccuparsene. Il premier, che ha bandito la politica dal Consiglio dei ministri, ieri non ha potuto esimersi dal commentare lo sconquasso: «La situazione è delicata». E basta che il bersaniano Gotor dica «sto per traslocare» per far pensare all’imminente rottura: «Ma no, cambio solo casa». Il Pd farà finta di essere ancora un unico partito anche domani.
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