Fallite le mediazioni. E il Pd già guarda al voto in settembre

carlo bertini
roma

Dietro i toni vibranti e le sparate, ci sono i tormenti. Fino all’ultimo qualcuno in alto loco si chiede se sia il caso di rimandare il congresso oggetto della discordia. Ma la linea è segnata. E già scorre il veleno: «Questi qui pensano di andare da soli per svolgere il ruolo di ago della bilancia che oggi è dell’Ncd», sibila un ministro renziano. Facile in questo clima prevedere un terremoto che potrebbe far crollare il governo. I sodali del leader scaricano sugli «scissionisti» l’instabilità che deriverà dalle loro scelte. «Le urne a settembre sono possibili, magari non si riesce a fare la legge elettorale e si va a votare così», ammette uno dei big. «Ma può essere che una volta vinto il congresso Matteo si intesti la partita di una legge di stabilità espansiva in contrasto con l’Europa, lanciando così la sua campagna elettorale per il 2018…». Scenario concreto a sentire i fedelissimi, anche se nessuno esclude le urne a settembre perché rientrerebbe nella logica di non dare tempo agli avversari per organizzarsi, scommettendo sulle loro «microscissioni».

La lotta intestina nel partito di maggioranza può terremotare l’esecutivo, visto che in Parlamento sarà scontro continuo e polemiche a iosa.

Nella guerra di propaganda delle fazioni si evocano segretari di federazione delle regioni rosse infuriati contro gli scissionisti. E i leader regionali ex diessini, da Bonaccini a Serracchiani, da Chiamparino a De Luca, preoccupati e certo non favorevoli alla spaccatura del Pd. «Ci prendiamo tre mesi per fare il congresso, uno dei periodi più lunghi e non c’è nessun blitz per votare a giugno, ma se chiedono di spostare il congresso non è fattibile», chiarisce Delrio.

 

Per tentare di evitare il disastro – anche ieri – tutti si muovono, il leader si confronta anche con Prodi e Veltroni, preoccupati per le ricadute internazionali. L’ultima mediazione – dopo il fallimento la sera prima del «lodo Franceschini» su elezioni a settembre e primarie a dicembre – parte ieri mattina. Un vortice di telefonate, tra Renzi, Guerini, Delrio, Franceschini, prima di recapitare un’altra offerta ai compagni: primarie il 14 maggio, tre giorni di conferenza programmatica; sostegno al governo Gentiloni senza specificare una data. Ma subito il clima si guasta: quando Emiliano via Facebook dice di aver convinto Renzi a sostenere Gentiloni fino al 2018, viene rintuzzato da Guerini sul fatto che la data delle elezioni non la decidono né Renzi né Emiliano. Ai compagni suona coma la conferma che «loro» non vogliono blindare la vita del governo.

 

Renzi parla con tutti, sente anche Speranza e Rossi. Da quel che raccontano i suoi, l’impressione è che nessuno di loro sia del tutto convinto. Per questo, le bordate contro gli ultimatum dei compagni dei renziani, da Ermini a Carbone, contengono tutte solo il nome di D’Alema, segno di una volontà ancora dialogante. Stamane non è convocata la Direzione a latere dell’Assemblea, per votare il percorso congressuale, (si terrà martedì o giovedì) per evitare provocazioni. A fine giornata Guerini è sconsolato. «Capisco che i congressi nel panorama italiano siano un evento eccezionale, ma è un momento di democrazia chiamare iscritti e elettori a decidere le leadership e lo stiamo facendo con le nostre regole. Non possiamo stare otto mesi a discutere».

LA STAMPA

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