Gli addii difficili e le lezioni della storia

Quello che si è prodotto ieri nel Partito democratico è qualcosa che assomiglia più alla fuoruscita di un gruppo di pur rilevanti personalità che ad una scissione vera e propria. Nel senso che alcuni rappresentanti di quell’area di opposizione a Matteo Renzi che lo hanno contrastato fin dai primi giorni della sua segreteria, preferiscono adesso restare nel partito e valutare l’ipotesi di proporre la propria candidatura a congresso e primarie. Pensando, più che ad una improbabile vittoria, a ritagliare per sé quello spazio che ebbe Renzi quando il 2 dicembre del 2012 perse la prima partita contro Bersani. O, meglio, ritenendo conveniente arroccarsi nel Pd per continuare a dare filo da torcere al segretario, aspettare tempi migliori (quelli in cui usciranno allo scoperto i nuovi nemici dell’ex presidente del Consiglio, i quali negli ultimi giorni si sono limitati a vestire i panni dei pacieri) e nel frattempo andare ad occupare i posti che in ogni caso spetteranno alle minoranze.

Del resto tutte le persone consapevoli sanno che a sinistra le scissioni conoscono solo un giorno di felicità e di entusiasmo, il primo, quando tutti in coro si canta Bandiera rossa e si evocano i grandi del passato. Per il resto fino ad oggi sono state delusioni, amarezze e dolori. Eccezion fatta per coloro che ormai sono fuori dai giochi i quali, quantomeno, possono compiacersi per il danno provocato a quelli che sono rimasti nel partito. A cominciare ovviamente dal loro leader. Del resto l’unica scissione della nostra storia che ha avuto successo è stata quella, nel 1914, di Benito Mussolini che uscì dal Partito socialista italiano. Se vogliamo è stata premiata anche quella del Pcd’I a Livorno (1921) ma ci sono voluti venticinque anni — con tutto quello che c’è stato in mezzo — perché il Partito comunista raggiungesse in termini elettorali quello socialista per poi scavalcarlo. E ha avuto buon esito anche la decisione dei bolscevichi («maggioritari») di Lenin di separarsi dai menscevichi («minoritari») del Partito operaio socialdemocratico russo presa nel congresso di Londra (1903), giunta a termine nella stagione che intercorse tra le due rivoluzioni del 1917, quella di febbraio e quella di ottobre.

 Ma queste scissioni di inizio Novecento hanno avuto come caratteristica comune quella di essere capeggiate da grandi leader e di dover passare attraverso sconvolgimenti non da poco, le guerre mondiali, prima di essere coronate da successo. Talché non si può neanche dire che i partiti giunti alla meta fossero gli stessi che anni prima si erano scissi dalla casa madre. Né va dimenticato il prezzo pagato per questi accidentati percorsi: la divisione tra comunisti e socialisti d’inizio anni Venti non è stata ininfluente nell’agevolare l’affermazione di Mussolini in Italia, così come quella tedesca non lo fu in tutto ciò che consentì ad Adolf Hitler di insediarsi al Reichstag.

Per il resto giova qui ricordare i tre principi fondamentali di queste separazioni politiche. Primo principio: la scissione è menzognera. L’avversione per il leader del partito abbandonato è tra i motivi prevalenti — spesso l’unico — di questo genere di divorzi. Al momento della separazione, però, tra i fuorusciti ci si dà forza favoleggiando di futuri successi per la propria formazione che sta nascendo e delle disgrazie di quella che si è abbandonata. Il che talvolta è stato vero, ma solo per quel che riguarda la seconda di queste affermazioni. Mai per la prima. In Germania la scissione di Die Linke di Oskar Lafontaine (2005) ha tenuto a battesimo il decennio di Angela Merkel e dell’Spd ridotta ad uno stato ancillare. Gli ultimi vent’anni ci insegnano che chi resta nel partito, invece, in qualche caso può ottenere una chance rilevante: in Inghilterra, la sinistra laburista — che ha resistito alla tentazione di lasciare il Labour party nei dieci anni e più in cui trionfava Tony Blair — oggi è con Jeremy Corbyn sulla tolda di comando; in Francia Benoit Hamon, che aveva sì lasciato nel 2015 il posto di ministro con Manuel Valls ma non il partito della rosa nel pugno, ha poi vinto le primarie (proprio contro Valls) ed è ora il candidato socialista alle elezioni presidenziali. Evidentemente Corbyn e Hamon non si sono fatti prendere dallo scoramento negli anni dei successi altrui e soprattutto hanno avuto fiducia nella loro capacità di farsi scegliere dal proprio elettorato.

Secondo principio: la scissione genera un sovrappiù di odio. Dal momento in cui ci si divide, l’obiettivo primario, checché se ne dica, non è quello di far vincere la propria parte, bensì di causare la sconfitta, se possibile rovinosa, del partito da cui ci si è o si è stati allontanati. Spesso provocando una crisi dell’assetto politico generale e pregiudicando quelli futuri. La scissione del Psiup nel 1964 indebolì irrimediabilmente il Psi al tempo in cui il partito di Pietro Nenni entrava «organicamente» nella compagine di centro-sinistra e necessitava di una maggiore forza contrattuale. La divisione, nel ’69, tra i due tronconi del Partito socialista — con i livori che ne seguirono — ottenne nell’immediato di far cadere un governo presieduto da Mariano Rumor e impedì al centro sinistra di avere un rilancio negli anni Settanta. L’uscita di Rifondazione comunista nel 1991 (l’unica, assieme a quella socialdemocratica del 1947, ad aver avuto quantomeno una motivazione pienamente comprensibile) rese più fragile il partito venuto alla luce sulle ceneri del Pci e la formazione che nacque da quello strappo passò alla storia per aver messo in crisi nel 1998 il primo governo presieduto da Romano Prodi e per essersi in quelle circostanze a sua volta divisa in due (per non parlare delle altre successive frammentazioni). Sicché non è detto che l’attuale scissione renda più stabile il governo presieduto da Paolo Gentiloni come, almeno in apparenza, dovrebbe essere nei conclamati propositi dei fuorusciti.

Terzo principio: la scissione non premia personalmente gli scissionisti, neanche a medio termine. Per quello che riguarda gli individui, queste traumatiche separazioni quasi mai hanno fatto risplendere l’astro di coloro che se ne sono andati, semmai hanno consentito l’ingresso sulla scena di figure fino a quel momento considerate secondarie. Unica eccezione, quella di Giuseppe Saragat nel ’47, ma lì la personalità dello scissionista era davvero di grande rilievo e l’occasione dello strappo meno pretestuosa della data di un congresso. Per il resto è sempre accaduto che le figure di coloro che decidono di andarsene, ancorché di prim’ordine, siano presto finite nel dimenticatoio. E che, semmai, per ottenere un qualche consenso si sia dovuta attendere una seconda generazione come è accaduto con i radicali di Marco Pannella (anche qui, però, ci troviamo di fronte ad una personalità di prim’ordine). Radicali pannelliani che avevano oltretutto ereditato, a metà degli anni sessanta, un partito — nato nel 1955 da una separazione dal Pli — il quale, dopo una serie di litigi solo in parte comprensibili, si era pressoché estinto.

Ma tutto questo i leader che prendono parte alle scissioni non se lo vogliono sentir dire, gli amici forse proprio per salvare il rapporto amicale non glielo ricordano, i congiunti men che meno e le seconde o terze file dei seguaci, pur essendo in grado, loro sì, di prevedere come andrà a finire, li incoraggiano verso il baratro nell’attesa di poterli soppiantare. Conquistando così una posizione di primo piano che nel partito madre mai avrebbero avuto. E qui sta il senso del perché, a dispetto degli esiti — almeno stando alla storia — sempre inevitabilmente catastrofici, queste separazioni continuano ad essere grandemente apprezzate.

CORRIERE.IT

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