Alpha GO: il suo trionfo è solo l’inizio

Il cervello sintetico in diretta: un’immagine di come si attiva un network neurale durante un processo di riconoscimento: a realizzare questo «scanning» senza precedenti è la società britannica Graphcore

gabriele beccaria

Leggete queste righe e fate un salto nel futuro. Siete nel 2022 e, prima di curiosare intorno a voi, osservate lo smartphone. È il suo cuore ipertecnologico a essere sconcertante: avete tra le mani un assistente personalizzato. Riconosce il vostro viso e quello della vostra famiglia. Conosce le vostre abitudini e ciò che amate e odiate. Monitora non solo gli acquisti, ma dati sensibili come la pressione sanguigna e il colesterolo ed esegue previsioni sulle espressioni del Genoma. Vi controlla in silenzio, ma conversa con voi.

 

Se amate la storia, vi diranno che all’origine di tutto c’è stato un evento dell’anno 2016, quando Lee Sedol, il campione mondiale dell’antico e complicato gioco cinese Go, fu battuto dal software AlphaGo, creato dalla società DeepMind di Google. E mentre la vostra auto a guida automatica vi porta a spasso, vi rendete conto che avevate sottovalutato quella notizia, che, all’epoca, aveva fatto il giro dei media. Adesso vorreste saperne di più, dei poteri dell’A.I., l’Intelligenza Artificiale, ma il varco temporale si sta chiudendo e state tornando al 2017, 11 mesi dopo quel paradosso: l’umiliazione di una mente biologica da parte di una macchina creata da un team di brillantissimi umani. Oggi, 22 febbraio, ci sono ancora molti interrogativi aperti e l’A.I. – ironizzano gli specialisti – è affascinante perché assomiglia al nostro cervello: è più opaca che trasparente e fa cose – come i neuroni – che non capiamo bene.

 

Tra chi cerca risposte ci sono David Silver e Fan Hui. Il primo è un programmatore di AlphaGo, il secondo è il campione europeo di Go. Condividono il privilegio di frequentare il mondo virtuale degli algoritmi e si sforzano di decifrarlo: come ragiona AlphaGo? Come elabora le strategie e perché sceglie certe logiche anziché altre?

 

Sembra una domanda banale e non lo è affatto. Non a caso si intreccia con i misteri del Go. Sulla sua tavola di 19 griglie per 19 due sfidanti si contendono con pedine bianche e nere il possesso del territorio. Vince chi controlla una zona più grande di quella dell’avversario, bloccandolo, e si ama ripetere che le configurazioni possibili sono più numerose degli atomi nell’Universo. Un rompicapo. Ed ecco perché Silver e Fan, il primo osservando le partite della macchina e il secondo giocando contro di lei, raccolgono indizi. Hanno scoperto che AlphaGo, a volte, ricorre a una mossa azzardata, valutata con una probabilità di successo su 10 mila, mentre altre volte non cerca la vittoria a tutti i costi, ma la più ragionevole. E quindi non corre rischi inutili.

 

AlphaGo sembra essere prossimo a noi in una dote-chiave ed enigmatica: la creatività. Il suo programma, infatti, racchiude un nocciolo impenetrabile: è la «black box», la scatola nera. Lì dentro si nasconde un modello matematico che è un network di unità-base. Connettendosi, simulano le reti dei nostri neuroni e infatti i dati forniti dai programmatori si organizzano in modo diffuso. Non ci sono cassetti, semmai scambi e addensamenti. Prende così forma la tecnica del «deep learning», con cui i network vengono addestrati a processare vasti archivi di informazioni, dai numeri alle immagini.

 

Nella «black box» AlphaGo attiva due reti neurali. Una analizza la probabilità di vincere in una certa posizione e l’altra la probabilità di ogni mossa in una data configurazione. Le reti hanno imparato a classificare questi valori analizzando partite già giocate e poi – con il «reinforcement learning» – sperimentandone altre contro se stesse. Milioni di test e, alla fine, la conseguenza inquietante: le sequenze di algoritmi – la lingua che la matematica fornisce alla macchina – generano una conoscenza di cui ci sfuggono molti passaggi e perciò i modelli.

 

Hod Lipson, prof alla Columbia University, ha sintetizzato questo muro cognitivo come un incontro tra noi e gli alieni. Pensate – ha detto a «Nature» – di dover descrivere degli oggetti a esseri i cui occhi «hanno sensibilità non solo per i colori primari, rosso, verde e blu, ma per un quarto a noi ignoto». Ci troveremmo in una scatola nera, appunto. Lì dentro si aggirano Silver e Fan – e altri come il capo di DeepMind, Demis Hassabis – e sognano scenari estremi: è possibile che l’A.I., con le sue capacità di analisi dei dati, dia vita a logiche che l’umanità non ha mai immaginato, risolvendo rebus come i cambiamenti climatici e le instabilità finanziarie? È un’ipotesi ancora più sconvolgente se si pensa che AlphaGo è un oggetto ideato da noi umani e che, quindi, sembra contraddire il principio del Nobel Richard Feynman: «Ciò che non posso creare non lo posso capire».

 

Creiamo e non capiamo. Ma, se si vuole realizzare lo scenario del 2022, con software che rivoluzionano gli smartphone e predicono i tumori e simulano le origini dell’Universo, è urgente incrinare il paradosso ed esplorare l’inesplorato.

LA STAMPA

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