L’Orco in prescrizione

Il faldone giudiziario appena precipitato nel cestino di un tribunale torinese contiene la storia indicibile per antonomasia: una creatura di sette anni ripetutamente offesa dal patrigno. Le prove del reato sono scolpite nel suo corpo, oltre che nella sua memoria. Tutto depone a favore di un epilogo rapido e scontato. Invece, tra rinvii e cambi di imputazione, la prima sentenza di condanna arriva quando la bambina è ormai adolescente. La pratica prende una boccata d’aria per poi precipitare nel girone infernale dell’Appello. Si sposta dal tribunale di Alessandria a quello di Torino, dove fa perdere le sue tracce per nove anni, schiacciata sotto cumuli di altre vite in attesa di giustizia. La sentenza successiva non può essere che di proscioglimento, dato che nel frattempo è scattata la tagliola della prescrizione. La giudice costretta a firmarla se ne vergogna, al punto da chiedere scusa al popolo italiano.

In questo Paese ognuno ha diritto al suo quarto d’ora di indignazione, poi tutto andrà avanti come prima: gli avvocati daranno la colpa ai magistrati, i magistrati ai politici. E nessuno penserà più al cuore devastato di una donna di ventisette anni, che da venti attendeva una riparazione, né all’alibi terribile che questo genere di verdetti regala ai giustizieri della notte. Se restasse anche solo una certezza nel diritto, dovrebbe essere che lo stupro dei bambini non può mai cadere in prescrizione. Vent’anni dopo si può discutere il tipo di pena, non la necessità di una condanna.

CORRIERE.IT

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