In principio era il verbo, scritto in cuneiforme
Ai segreti e alle rivelazioni del cuneiforme – che assieme al geroglifico egiziano è il più antico sistema di scrittura al mondo, escogitato in Mesopotamia oltre 5 mila anni fa e da lì diffuso in una vasta area circostante, fino all’Iran – è dedicata la rassegna «Segni prima dell’alfabeto», curata da Frederick Mario Fales con Roswitha Del Fabbro e ospitata a Venezia, presso l’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti, fino al 25 aprile (catalogo Giunti). Un viaggio alle origini della scrittura che è anche un viaggio alle radici dell’Occidente, perché è nella Terra tra i Due Fiumi, come intuì Jean Bottéro, che si incontra «il primo abbozzo di quello che, ripreso, amplificato, approfondito e organizzato più tardi dai pensatori greci» diventerà lo spirito della nostra civiltà.
In mostra 200 pezzi, tra vasi, statuine, placche votive, gioielli, soprattutto tavolette iscritte e meravigliosi sigilli che evocano il mito del Diluvio e le storie di dèi e eroi. Provengono dalla straordinaria collezione messa insieme dal veneziano Giancarlo Ligabue – grande imprenditore nel ramo del catering e appassionato paleontologo e archeologo, scomparso nel 2015 (ne ha raccolto il testimone il figlio Inti, che gli intitolato una Fondazione) – con l’aggiunta di alcuni importanti prestiti dal Museo di Antichità di Torino e dall’Archeologico di Venezia.
Dopo il viaggio del pellegrino Della Valle, il mistero del cuneiforme doveva restare inviolato ancora per un paio di secoli. Fino a quando la decifrazione di una delle lingue riversate in quella scrittura, l’antico persiano, aprì la via al fortino degli idiomi mesopotamici. In primo luogo all’accadico, parlato con qualche variante dai Babilonesi a Sud e dagli Assiri a Nord, che essendo una lingua semitica poteva essere compresa attraverso il confronto con le altre dello stesso ceppo.
Fu una specie di gara, alla quale parteciparono nel 1857 il diplomatico inglese Henry C. Rawlinson, il pastore irlandese Edward Hincks, l’archeologo tedesco-francese Jules Oppert e l’inglese William Henry Fox Talbot, pioniere della fotografia. Ognuno degli sfidanti doveva mandare in busta sigillata alla Royal Asiatic Society di Londra la propria traslitterazione e traduzione di un’iscrizione del re assiro Tiglat-pileser I (1113-1074 a.C.). Quando le buste furono aperte, si constatò che le quattro versioni differivano di poco: l’assiro-babilonese poteva considerarsi decifrato, era nata l’assirologia.
Resisteva il segreto del sumerico, la lingua della civiltà mesopotamica più antica, che intorno al 3200 a.C., in contemporanea con quanto avveniva Egitto, aveva inventato la scrittura, mettendo a punto un sistema di segni che, modificandosi nel tempo, sarebbe rimasto in uso fino ai primi anni dell’era volgare (l’ultima tavoletta in cuneiforme è del 100 d.C.). Il sumerico era una lingua di origine ignota, e fu ancora Oppert a porre le basi per la sua comprensione, poi sviluppata a cavallo tra Otto e Novecento grazie anche alla scoperta di numerose tavolette di «dizionari» sumero-accadici.
«La scrittura», spiega Fales, «è stata inventata quando serviva, in un sistema sociale e economico sufficientemente articolato, per finalità contabili e amministrative: come indicatore minimo di una trattativa che si era svolta a monte, quasi un pro memoria, non come un testo continuo espressione dell’oralità. A questo si arriverà al termine di un lungo processo». Si trattava di un’arte detenuta in esclusiva da una categoria di specialisti, gli scribi, da cui dipendevano in tutto i funzionari e gli stessi sovrani: «Soltanto alcuni facevano eccezione, come Shulgi nel 2100 o Assurbanipal nel VII secolo a.C., che si vantava di avere imparato a scrivere, ma infarciva le sue lettere di errori».
Sono all’incirca un milione le tavolette riportate alla luce nell’ultimo secolo e mezzo, che ci forniscono una visione diretta e dettagliata dell’universo materiale e spirituale di quelle civiltà lontane. Dentro c’è di tutto: testi giuridici, contratti di compravendita, liste di persone cose e animali, lettere, liste lessicali (vocabolari monolingui e bilingui), liste astrologiche, serie di sintomatologia medica, testi letterari come l’epopea di Gilgamesh in 13 tavolette. Tra quelle in mostra – tutte della collezione Ligabue, la maggiore in Italia, se si eccettua quella dei Musei Vaticani – una delle più complesse riporta una minuziosa serie di prescrizioni mediche per una partoriente afflitta da coliche, a cui seguono formule magiche per favorire la nascita: «Non odono più le sue orecchie, non è più alto il suo petto, i suoi ricci sono sparsi, non porta più il velo, non ha più vergogna. O misericordioso Marduk, sii presente! […] Che egli esca, che veda la luce!».
Quella dei Sumeri, spiega Fales, era una lingua monosillabica e agglutinante (nella quale le parole sono composte da una radice a cui vengono «incollati» suffissi e prefissi per esprimere il genere, il numero, il caso o il tempo). La loro scrittura assomiglia a un rebus: per esempio, nel nome di persona Enlilti («il dio Enlil fa vivere») il concetto di vita (ti) è difficilmente rappresentabile; si ricorre perciò al segno quasi omofono che rappresenta la freccia (til). Dal 2300 in poi il cuneiforme viene adattato all’accadico, lingua semitica polisillabica e flessiva (che cioè, come l’italiano, declina le desinenze in modo che uno stesso morfema possa esprimere una pluralità di relazioni grammaticali) e quindi a numerose altre parlate locali come quelle dell’Elam, di Ebla, della Siria, perfino a quella indoeuropea degli Hittiti in Anatolia. I segni, inizialmente pittografici, vanno incontro a un processo di progressiva stilizzazione – conseguenza anche dell’uso dello stilo di canna a sezione triangolare con cui venivano impressi nell’argilla fresca – ma hanno adesso valori fonetici differenti, pur nel permanere del significato. Un esempio suggestivo è quello del logogramma della parola acqua, che si legge a in sumerico, mu in accadico e (straordinaria ma assolutamente casuale assonanza con l’inglese) wa-a-tar presso gli Hittiti.
«Il cuneiforme», sottolinea il professor Fales, «è un sistema straordinariamente plastico, e questo ne ha determinato la fortuna». Ma a lungo andare doveva patire le conseguenze della sua stessa diffusione. A differenza che in Mesopotamia, in territori come la Siria e la Palestina l’argilla scarseggiava: come supporto della scrittura si ricorreva alla pergamena, al papiro, al coccio, materiali inadatti a essere incisi, scorrendo sui quali il pennellino degli scribi tracciava segni che non potevano più essere cunei spigolosi. E quando per le accresciute esigenze di società più articolate l’arte della scrittura non fu più riservata a pochi, si dovette constatare che imparare una trentina di segni è molto più facile che apprenderne 600, ognuno con una pluralità di valori. Tramontava il cuneiforme, dopo 3300 anni, e si affermava l’alfabeto.
LA STAMPA
This entry was posted on giovedì, Febbraio 23rd, 2017 at 08:22 and is filed under Cultura. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.