Dirigere le carceri? In sei casi su dieci a farlo è una donna

linda laura sabbadini
roma

In Italia fra i direttori di carcere le donne sono la maggioranza: il 60%. «Vinciamo di più i concorsi, come succede in magistratura» dice Silvana Sergi, che dirige Regina Coeli, 905 detenuti, tutti uomini. Della situazione delle carceri si parla troppo poco nel nostro Paese. Continuiamo ad avere indici di affollamento non sostenibili, con 19 detenuti in più ogni 100 posti disponibili effettivi, cioè eliminando le celle non utilizzabili.

 E non perché abbiamo più detenuti degli altri, ma perché utilizziamo meno misure alternative alla detenzione e abbiamo troppi detenuti in attesa di giudizio (35%). Troppi suicidi, anche se diminuiti rispetto al passato, troppe carenze igieniche, troppe mancanze nell’assistenza post-carcere, troppe recidive. Il Garante dei detenuti, Mauro Palma, fondatore di Antigone che compie 26 anni in questi giorni, vigila su questo e richiede un drastico miglioramento. E Rita Bernardini, radicale, è in sciopero della fame da giorni, per stralciare la riforma penitenziaria dalla riforma della giustizia penale e accelerarne l’approvazione. Siamo lontani dall’applicare il nostro dettato costituzionale, ed è lungo il cammino per trasformare le carceri da “scuola di violenza e di odio” a “scuola rieducativa e di riscatto”, pur restando fermo il principio della giusta pena e che questa venga scontata.

 

Gli istituti sono 190, in media con 280 detenuti. Solo il 29% dei detenuti lavora, e nella grande maggioranza dei casi (85%) per l’Amministrazione penitenziaria. Le attività di formazione e cultura non sono adeguatamente sviluppate; gli educatori, in gran parte donne, sono troppo pochi (4 per carcere), solamente il 70% di quelli previsti dalla legge. Soltanto in 87 carceri c’è la possibilità di effettuare colloqui nei giorni festivi, qualcuno di più lo consente nel pomeriggio, ma con limitazioni. Il diritto all’affettività va esteso. Le persone che vivono in carcere sono 54 mila 653 alla fine del 2016.

 

Tra questi le donne sono una piccolissima minoranza, il 4,4%. Al contrario, fra i direttori di carcere le donne sono sei su dieci. Regina Coeli, diretto da Silvana Sergi, è un carcere difficilissimo, perché circondariale, con alto affollamento, detenuti in attesa di giudizio, anche con gravi problemi psicologici, che in molti casi non dovrebbero stare in carcere, con flussi in entrata continui. Ma in un mondo così maschile questa presenza così ampia di direttori donna può favorire un salto di qualità? Secondo Sergi, «per fare il direttore bisogna avere una visione a 360 gradi e curare le relazioni, come quotidianamente fanno le donne. Non abbiamo voglia di primeggiare. Il rispetto dai detenuti ar

 

riva, non perché usi il pugno di ferro. Ci vuole fermezza, unita a umanità e fiducia». Donata Francescato, psicologa di comunità, sostiene che nello stile di leadership ci sono valori maschili – più legati all’«io» e al potere – e valori femminili – più legati al «noi» e all’universalismo -, che nella pratica non si incardinano schematicamente su uomini e donne, ma che «in media sono più diffusi tra gli uni e le altre rispettivamente». «Sono innamorata del mio lavoro – dice Sergi – si può incidere tanto per il bene comune e il volontariato è prezioso». A Regina Coeli le celle sono aperte dalle 9 alle 19, e numerosi sono i progetti avviati con l’associazionismo, ma non basta, la situazione è molto dura. Il direttore di un carcere è condizionato dai problemi strutturali del sistema penitenziario, ma può fare la differenza.

 

«Bisogna essere creativi, tessere reti con associazioni, imprese, fare lavoro di squadra con tutto il personale e i volontari» afferma Ida Del Grosso, che dirige Rebibbia femminile, precedentemente volontaria in carcere. Racconta le storie delle detenute: le rom obbligate dai mariti a rubare, con figli piccoli che stanno nel nido dell’Istituto; le latino-americane, corriere della droga, senza famiglia alle spalle; le africane coinvolte nello sfruttamento della prostituzione; le italiane in gran parte tossicodipendenti, con tanti casi di violenza subita in famiglia. Le madri sono coraggiose, ma con il senso di colpa della lontananza dai figli. Ne parla con passione. Crede molto nelle esperienze lavorative esterne, che vorrebbe più frequenti. «Una donna ha imparato a fare giardinaggio e una volta uscita è stata assunta in un vivaio. Collaboriamo anche con l’Accademia di Francia in questo campo». Le celle sono aperte dalle 8 alle 20. Importante l’incontro con le scuole: «Cerco di creare una interazione vera dentro/fuori, non passiva, fra una classe di studenti di Rebibbia e una esterna. Con il doppio risultato che le detenute crescono nel confronto e ai ragazzi cadono i pregiudizi verso chi sta in carcere».

 

Donne così sono un pilastro fondamentale in una nuova strategia di carcere aperto, dentro e fuori, e di rilancio delle misure alternative alla detenzione. Non solo loro, basta pensare a Massimo Parisi attuale direttore di Bollate e allo storico Direttore di Gorgona, Carlo Mazerbo, dove i detenuti producevano vino per l’etichetta della famiglia dei Marchesi dei Frescobaldi, e a tanti altri operatori e volontari invisibili. Gli Stati generali dell’esecuzione penale, voluti dal ministro Orlando e dall’Amministrazione penitenziaria, hanno spinto su questa strada, un segno di speranza.

LA STAMPA

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