La sfida di Renzi al piano grillino. Un aiuto da 500 euro al mese
Un sostegno medio di cinquecento euro al mese per chi è in condizioni di povertà o disoccupato. Costo: fino a 4,5 miliardi di euro l’anno. A volerla spiegare in estrema sintesi è questa la proposta alternativa di Matteo Renzi al «reddito di cittadinanza» del Movimento Cinque Stelle. Una regola base del marketing – perfettamente valida anche per quello della politica – è far credere di offrire gratis anche ciò che non lo è. Parlare di «lavoro» o «reddito» di cittadinanza equivale a promettere soldi a tutti, a prescindere da condizioni sociali, lavorative o familiari.
L’Italia – in compagnia della Grecia – è invece l’unico Paese europeo in cui non esiste un «reddito minimo», ovvero una misura in grado di garantire a chi ne ha effettivamente bisogno una soglia minima di sussistenza. Le proposte di Pd e M5S vanno entrambe in quella direzione.
Il responsabile economia del Pd Filippo Taddei si affida ad un antico proverbio cinese: «Se un uomo ha fame non regalargli un pesce, ma insegnagli a pescare». Il piano di Renzi non parte dal nulla: proprio questa settimana il Senato dovrebbe approvare in via definitiva il disegno di legge delega per la lotta alla povertà. L’approvazione di quella delega vale a regime 1,8 miliardi di euro, abbastanza per erogare fino a 400 euro al mese all’85 per cento delle famiglie con meno di tremila euro l’anno. Ovviamente le persone in condizioni di povertà sono molte di più, circa 4,6 milioni di italiani. Il piano di Renzi punta ad allargare quel sussidio fino a trasformarlo in un «reddito di inserimento» e a comprendere tutti coloro i quali hanno redditi inferiori agli ottomila euro l’anno.
Già oggi per ottenere il «Sia» – la versione «beta» del reddito minimo targato Pd – l’Inps impone una serie di condizioni: occorre presentarsi in Comune con la certificazione dei propri redditi (noto come modulo Isee), avere un minore in famiglia, non si può ricevere altri sussidi né possedere la moto o un’auto di cilindrata superiore ai 1300.
L’ambizione del progetto Pd al quale lavora il responsabile del programma Tommaso Nannicini è di superare tutti gli attuali strumenti di integrazione al reddito (sussidi di disoccupazione, aiuti alle famiglie) e unificarli, costruendo così uno strumento universale. Facile a dirsi, difficile a farsi, visto che nel frattempo alcune Regioni (Lombardia, Puglia, Friuli) si sono mosse in proprio introducendo altri sussidi, e contribuendo a complicare il già complicato «sistema Arlecchino» di aiuto ai bisognosi (il copyright è di Luca Ricolfi). Di buono c’è che il progetto Pd ha l’ambizione di riformare le cosiddette «politiche attive» sul lavoro e i centri per l’impiego, discretamente gestiti al Nord, fallimentari al Centro-sud. Una delle idee allo studio prevede di restituire ai lavoratori lo 0,3 per cento che oggi viene trattenuto dall’azienda per i corsi di formazione professionale: quei soldi alimenteranno un fondo «aggiornamento professionale» che ciascun lavoratore dipendente potrà spendere come crede.
Uno dei più noti filosofi del Novecento – John Rawls – si chiedeva spesso che senso avesse dare soldi «ai surfisti di Malibu». Ma le ragioni dei surfisti non sono nemmeno in cima ai pensieri di Grillo e dei suoi. La proposta di legge 1148 del M5S è più generosa di quella del Pd ma non somiglia per niente al reddito di cittadinanza. Anche la proposta dei grillini vincola la concessione del sussidio a diverse condizioni: occorre presentare l’Isee, se c’è un invalido occorre una visita per verificarne l’invalidità, se si è disoccupati bisogna fornire immediatamente la disponibilità al lavoro al centro per l’impiego. Il problema sono i costi: il piano Grillo-Di Maio promette fino a 780 euro a persona. Se però i componenti della famiglia sono sette, il massimo erogabile in un anno è di 37.440 euro. Moltiplicate per il numero di famiglie povere e si possono apprezzare rapidamente le conseguenze sui conti pubblici.
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