Più lavoro a condizioni peggiori. Così la parità resta un miraggio

linda laura sabbadini
 

Si avvicina l’8 marzo, ma niente retorica. Siamo ancora in tempi difficili e la crisi non ha aiutato. Le donne hanno retto più degli uomini, hanno perso meno occupazione e recuperato prima. Soprattutto perché erano meno numerose nell’industria e nelle costruzioni, i settori più colpiti. È per questo che le differenze di genere nel mercato del lavoro si sono ridotte. Può sembrare positivo, ma a ben vedere si tratta di una diminuzione delle disuguaglianze al ribasso: non per la crescita dell’occupazione femminile, come avvenuto negli Anni 90, dopo la precedente crisi, ma perché gli uomini hanno visto peggiorare la loro situazione occupazionale. Certo, ci sono stati miglioramenti, con l’aumento della percentuale di occupate e delle stabilizzazioni, ma non sono bastati per raggiungere il 50% di tasso di occupazione femminile. La situazione è particolarmente critica per le giovani, che non solo hanno difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro, ma che più facilmente lo perdono, per la più frequente precarietà, e per i rischi che corrono all’indomani della nascita dei figli. In generale, in questi anni, la qualità del lavoro femminile è peggiorata.

È cresciuto il part time involontario, non lo strumento di conciliazione dei tempi di vita, ma quello «più utile» alle imprese, come strumento di flessibilità. E così si evidenzia il paradosso che chi vorrebbe fare il part time per conciliare i tempi di vita non riesce ad ottenerlo e chi invece, non lo vorrebbe, è costretto ad accettarlo, non trovando altro. Abbiamo una quota di part time involontario doppia rispetto all’Europa (60%): con la crisi è cresciuto anche negli altri Paesi, ma non fino a questo punto. La crescita è avvenuta in tutte le zone del Paese, di più tra le donne e in professioni non qualificate, nel commercio, soprattutto alberghi e ristorazione. Le donne, più degli uomini, sperimentano la precarietà con la conseguenza di più basse retribuzioni e instabilità economica.

 

 

 

Sono più le donne che sono in stato di precarietà da almeno cinque anni e la percentuale di lavoratori a bassa paga è più alta tra le donne, raggiunge il 12,5% e il 37% per le giovani fino a 24 anni. Negli anni della crisi è aumentata anche la quota di occupate sovra-istruite, di donne che lavorano in professioni non adeguate al titolo di studio conseguito; ciò è avvenuto anche per gli uomini, ma è evidente lo svantaggio femminile (25,2% contro 22,4%), in particolare tra le giovani, quasi il 40%, tra le 25-34enni. Sono diminuite le professioni tecniche e aumentate quelle non qualificate. Basta pensare che l’unico settore che ha visto un segno di crescita occupazionale durante la crisi è stato quello dei servizi alle famiglie.

 

 

A fronte di bisogni di assistenza di anziani non autosufficienti, diventati sempre più incomprimibili con il progressivo processo di invecchiamento demografico, le famiglie, anche quando sono in difficoltà, preferiscono tagliare su altre spese piuttosto che privarsi di un supporto fondamentale. Inoltre, le donne continuano ad interrompere il lavoro in seguito alla nascita dei figli, ed hanno sempre maggiori problemi di conciliazione dei tempi di vita. D’altro canto, non sono stati fatti passi in avanti, né sul piano dei servizi per la prima infanzia, né su quello della rigidità delle organizzazioni del lavoro. E ciò pesa anche sui percorsi di carriera delle donne. Con fatica, conquistano posti rilevanti mentre la segregazione verticale di genere del nostro mercato del lavoro continua ad essere accentuata. Il lavoro ha rappresentato un cambiamento fondamentale dell’identità femminile.

 

Da una fase transitoria della vita delle donne, e fortemente condizionato dalle fasi del ciclo di vita, diventa un aspetto fondamentale di realizzazione di sé. Le donne vogliono realizzarsi su tutti i piani, essere valorizzate per quello che valgono, e tradurre il loro maggiore investimento in istruzione e cultura in migliore lavoro. Ci tengono al loro lavoro, ne sono soddisfatte, anche se si lamentano di più degli uomini della retribuzione. Le aspettative si scontrano con una dura realtà e spesso il lavoro non lo trovano o lo trovano precario. E così rinviano i progetti di vita. Poi dai rinvii si passa alle rinunce, piccole o grandi, fino a quella di continuare a cercarlo un lavoro.

 

Cronache di vita quotidiana, che le donne conoscono bene. E questo è un grande problema, perché se poche donne lavorano non ci perdono solo le donne, ma ci perde socialmente ed economicamente il Paese, che non valorizza le sue risorse, che espone di più le famiglie al rischio di povertà, che non scommette su una crescita inclusiva e sostenibile.

 

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