Suicidio collettivo
Dj Fabo è morto ieri alle 11.40 in una clinica svizzera dove praticano l’eutanasia. Aveva 39 anni, e da tre era cieco e completamente paralizzato in seguito a un incidente stradale.
Voleva morire, uscire dalla «gabbia di dolore» e l’aveva chiesto di recente anche al presidente Mattarella. L’ha ascoltato solo Marco Cappato, esponente radicale dell’associazione Luca Coscioni che si batte per il diritto alla morte dei malati terminali. Il viaggio in Svizzera, le visite, diecimila euro e ieri la fialetta letale, azionata con la bocca. In Italia il suicidio assistito è vietato, e il solo agevolarlo è reato grave (si rischiano fino a dodici anni di carcere).
Questi i fatti, che scuotono le coscienze e il mondo politico incapace di affrontare la questione (da anni giacciono progetti di legge contro l’accanimento terapeutico e sui trattamenti di «fine vita»). Possiamo giudicare Dj Fabo per quello che ha fatto su se stesso? Ognuno è ovviamente libero di farlo, io non lo faccio perché – come sosteneva anche Montanelli – rivendico il diritto di scegliere come e quando morire. Ma vorrei che accadesse in silenzio, senza disturbare lo Stato, psicologi, media e tribunali. Non vorrei la compassione, a volte gli insulti, dei cattolici integralisti né l’applauso fuori luogo dei laici incalliti. Vorrei che accadesse nel mio letto e che qualcuno che mi ha voluto bene mi tenesse la mano mentre scelgo di accelerare il corso della vita che se è stata vissuta è comunque sufficiente.
Oggi questo diritto non l’abbiamo. In alcuni casi possiamo prendercelo clandestinamente, senza carte bollate e senza inguaiare nessuno. Ma non sempre è così. E allora? Non credo nell’etica collettiva, tanto meno in quella universale. Dalla procreazione all’amore fino alla morte, ogni Stato si comporta come crede. Ciò che è illegale in Italia è permesso altrove e viceversa: nell’era della globalizzazione i reati assoluti restano davvero pochi. Il resto è opinabile e aggirabile. Capisco i rischi e gli abusi che una legge sul «fine vita» potrebbe comportare, vista la quantità di parenti serpenti e di depressi in circolazione. Ma autorizzare senza tante istruttorie il «fine vita» in grembo (legge sull’aborto) e negarlo in malattia terminale è da ipocriti. Se manteniamo l’accanimento terapeutico, almeno togliamo quello giudiziario per chi, per se stesso o per i suoi cari, decide diversamente. Sia in vita sia in morte mi sento più sicuro nelle mani dei miei che in quelle dello Stato.
IL GIORNALE
This entry was posted on mercoledì, Marzo 1st, 2017 at 15:33 and is filed under Editoriali - Opinioni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.