Il rischio del «tutti contro tutti» nel Partito democratico
Non più un Pd che considera quello di Paolo Gentiloni un «governo amico». Semmai, il premier costretto in qualche modo a tenersi a distanza dal suo partito, per i lampi di instabilità che sprigiona. La ricaduta immediata di quanto sta succedendo con le inchieste giudiziarie sulla Consip sembra questa. E il presidente del Consiglio l’ha capito così bene che ieri l’ha raccomandato a tutti i membri dell’esecutivo. Non è scontato che lo smarcamento riesca: dipenderà molto da come e a chi si allargheranno le indagini della magistratura, che coinvolgono il padre dell’ex premier, Tiziano Renzi, interrogato ieri, e il ministro dello Sport, Luca Lotti. Ma Gentiloni è costretto a ritagliarsi margini di autonomia dal Pd, per non essere risucchiato nella sua crisi. Solo rispondendo al Paese, e non ai dem, può evitare di diventare il capro espiatorio delle tensioni interne. Perché già si intravede la seconda conseguenza di questa vicenda imbarazzante e opaca: trasformare il prossimo congresso del Pd in una sorta di ring dove si celebrerà il rito del «tutti contro tutti». Con la politica tenuta in un angolo, e le accuse di affarismo, disonestà, giustizialismo bene in vista; e destinate a dominare un dibattito avvelenato dall’eco delle inchieste.
La tentazione di rinviare tutto, primarie e congresso, si è affacciata nelle ultime ore ma per adesso è stata ricacciata indietro. Da Renzi, perché significherebbe ammettere difficoltà vistose, che tra qualche mese potrebbero aumentare e gli precluderebbero la strada verso la conferma alla leadership. E dai suoi concorrenti, perché i colpi che arrivano alla nomenklatura renziana dal tesseramento gonfiato e dal caso Consip si aggiungono alle convulsioni della scissione; e danno a Michele Emiliano e Andrea Orando, governatore della Puglia e ministro della Giustizia, la speranza di contrastare una rielezione finora quasi scontata. Forse, però, è la terza ricaduta che dovrebbe preoccupare di più i vertici del Pd. Riguarda la sconnessione evidente tra la realtà autoreferenziale raccontata da loro, e il fastidio che si capta nell’opinione pubblica. Renzi vede una situazione surreale e attacca «i processi fatti dai giornali». Ma surreale è un po’ tutto. Lo è il modo impietoso col quale alcuni avversari interni adesso lo attaccano: una virulenza assente prima della sua sconfitta referendaria. Lo è la iattanza dell’ex premier, che si difende con le unghie ma come se si trattasse di una manovra nata dal nulla. Lo è il silenzio dei suoi alleati, che si limitano a stare a guardare.
Rischiano di essere le premesse di un cannibalismo tra le tribù congressuali del Pd che, se non viene fermato in tempo, farà stappare ettolitri di champagne a Beppe Grillo. Un sistema in affanno ripropone la solita domanda di fondo: e cioè come mai, per l’ennesima volta, la politica si sia dovuta affidare alla supplenza della magistratura per capire che stava succedendo. E perché un partito che guida l’Italia da oltre tre anni in nome di un rinnovamento catartico, e inneggia al primato della politica, ha finito per umiliarla: se non altro perché non ha prodotto anticorpi in grado di arginare la commistione con l’affarismo. La fauna umana e gli intrecci economici che emergono, parlano di un ambiente intossicato da lobby di provincia fameliche e maldestre. Colpisce soprattutto questo, nello scandalo Consip: la caratura mediocre dei personaggi, il livello basso dei loro intrecci. Non c’è nessuna grandezza, nel declino della nomenklatura. Il ridimensionamento non avviene per un passaggio epocale della politica. Sfilano personaggi di un’Italietta che si crede furba e risponde a cliché al limite della caricatura. Solo che in una fase come questa può fare danni seri. E consegnare l’Italia a un populismo che ingrassa proprio grazie a una politica presuntuosa quanto permeabile all’infiltrazione di poteri esterni.
CORRIERE.IT