Che succede davvero se usciamo dall’Euro?

 

di Luca Piana, Gloria Riva e Stefano Vergine

Gli stipendi aumenterebbero. Al contrario, l’inflazione si mangerebbe tutto. Le esportazioni volerebbero. Ma no, le industrie andrebbero a gambe all’aria. Quando parlano di che cosa accadrebbe all’Italia se uscisse dall’euro, i vari politici dicono di tutto. Chi vuole dare l’addio alla moneta unica, la dipinge come la causa dei mali che ci affliggono e sostiene che tornare alle valute nazionali potrebbe dar vita a un nuovo Rinascimento, rilanciando l’industria e gli stipendi dei lavoratori. I difensori del progetto europeo ribattono che non è così, e che una sua disintegrazione rischierebbe di provocare danni irreversibili, soprattutto nei Paesi più fragili.

Per raccontare un dibattito dove gli estremi sono così lontani fra loro, e nel quale dar retta ai sogni o agli incubi esibiti dai politici rischia di essere fuorviante, L’Espresso ha scelto di rispondere agli interrogativi sul senso e il futuro della moneta unica con un’indagine di largo respiro. Abbiamo mandato un questionario di dodici domande a economisti, imprenditori e sindacalisti, chiedendo la loro opinione su quanto c’entra l’euro con alcuni dei problemi che affliggono l’Italia, dall’elevata disoccupazione agli stipendi troppo bassi. E domandando loro se ritengono vere o no le argomentazioni più ricorrenti nello scontro in atto.

Ci hanno risposto 52 persone, una quota consistente degli interpellati . Ci sono imprenditori molto conosciuti come Alberto Bombassei e Oscar Farinetti, Pasquale Natuzzi e Roberto Snaidero, Emma Marcegaglia e Alessandro Benetton, ma anche rappresentanti del “made in Italy” più verace e industrioso, nonché startupper in qualche caso giovanissimi, che l’azienda se la sono costruita da soli in questi anni di crisi, quando l’economia tricolore sembrava imbalsamata. Hanno poi contribuito numerosi economisti, che insegnano in Italia o all’estero.

Rispondi tu al nostro sondaggio Queste sono le dodici domande che abbiamo fatto a un grupo di 52 tra industriali, economisti, imprenditori e sindacalisti. Dicci quale sarebbe invece la tua risposta ai quesisti sull’euro

E non mancano i sindacalisti di Cgil, Cisl e Uil. Oltre ai segretari nazionali Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo, abbiamo inviato il questionario ai metalmeccanici Maurizio Landini, Marco Bentivogli e Rocco Palombella, vista la rilevanza in termini di posti di lavoro e di esportazioni che ricopre questo settore.

Una premessa importante: il nostro è un lavoro giornalistico, senza pretese scientifiche. Il fatto che meno del 6 per cento degli interpellati ritenga che l’Italia debba uscire dall’euro, non è un dato significativo dal punto di vista statistico. Eppure, visto il numero e la rilevanza del le persone che ha risposto, il quadro che emerge ci sembra interessante, da più punti di osservazione. In primo luogo, possiamo certamente dire che la questione Italexit è molto sentita e che c’è voglia di farsi sentire la propria opinione, segno che l’argomento è in cima ai pensieri di tanti.

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Secondo: gran parte degli interpellati ha scelto di sfuggire alla semplificazione che caratterizza la battaglia fra “pro” e “contro” sui media, con le colpe delle difficoltà dell’euro attribuite univocamente alla Germania e alle sue scelte di austerità, oppure alla mancanza di barriere per proteggere le industrie nazionali. Per molti dei 52 partecipanti, infatti, le responsabilità dei giorni dell’angoscia dell’Europa unita vanno ricercate in diversi fattori.

Quasi la metà indica nell’assenza di una vera politica fiscale comune una delle ragioni che minacciano la sopravvivenza dell’euro. Ma la stessa quota – il 46 per cento – dice pure che i politici italiani hanno scaricato sulla moneta comune la loro incapacità di fare le riforme che renderebbero più competitivo il nostro Paese. E ancora, a proposito di partiti, c’è un duplice fatto che dovrebbe far meditare i leader dei movimenti anti-euro. Da un lato, tra le persone intervistate pochis sime ritengono che il ritorno alla lira rilancerebbe il sistema produttivo interno, come vuole un’idea piuttosto diffusa. Dall’altro, alla domanda se i movimenti sottovalutano i rischi politici e sociali di un abbandono, i risultati sono plebiscitari: l’82,7 per cento ha risposto «sì, moltissimo», il 15,4 per cento «in parte» e solo uno si è spinto a dire «no, per nulla».

Al di là di queste osservazioni, tuttavia, quello che ci interessava davvero raccontare era lo spettro complessivo dei giudizi di un pubblico qualificato sulle domande che gli stessi cittadini si pongono. I primi quesiti, dunque, cercano di individuare che peso gli esperti attribuiscono all’euro nelle difficoltà che stanno fiaccando l’economia italiana. Punto di partenza: i dati resi noti dalla Commissione europea qualche giorno fa. Se l’Italia sembra essersi lasciata alle spalle la recessione, con il Pil cresciuto dello 0,9 per cento nel 2016 e previsto aumentare allo stesso ritmo quest’anno, resta il fatto che la nostra economia va al rallentatore. Non solo in questo 2017 sarà la più lenta della zona euro, ma verrà superata da Paesi che la crisi finanziaria aveva spinto nel precipizio, come la Spagna (+2,3 per cento, prevede Bruxelles), l’Irlanda (+3,4), persino il Portogallo (+1,6).

Tra i nostri 52 partecipanti, la quota di chi ritiene che in questo andamento moscio l’euro pesi non è bassissima: per l’11,5 per cento ha contato molto, per il 28,8 per cento parzialmente. Approfondendo un po’ questo risultato, tuttavia, per molti non è la moneta unica in sé la causa del malcontento, quanto le politiche europee e italiane che l’hanno accompagnata.

Dice Fulvio Coltorti, che dopo aver diretto per tanti anni l’Area studi di Mediobanca ora insegna Storia dell’industria alla Cattolica di Milano: «La bassa crescita dell’Eurozona è determinata dal prevalere delle politiche di austerità che hanno impedito ai Paesi europei di riprendere quota dopo la grande crisi finanziaria, come hanno invece fatto gli Stati Uniti e il Regno Unito adottando fin da subito politiche keynesiane di stimolo alla domanda aggregata». Coltorti, dunque, vede l’Italia arrancare in un contesto di Paesi, quelli dell’Eurozona, che pure non brillano. E il motivo è questo: quando la crisi li ha impiombati, non hanno saputo utilizzare adeguatamente il bilancio pubblico per rilanciare un vero percorso di crescita, come hanno saputo fare a Washington e a Londra, gonfiando il disavanzo pubblico.

I debiti di Silvio
Pietro Alessandrini, professore emerito di Politica economica all’Università Politecnica delle Marche, in un recente lavoro condotto assieme ad altri studiosi, ha elaborato una serie di dati molto interessanti. Dicono che nel triennio 2011-2013, quando la crisi da globale si è fatta europea e la reazione delle istituzioni e dei governi al fallimento greco ha incrinato la fiducia nella moneta unica, l’Eurozona ha fatto esattamente il contrario di quanto sarebbe stato utile. Tutti insieme, Germania, Francia, Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, hanno attuato politiche di bilancio restrittive: come se, a un sub che deve nuotare controcorrente, si chiudesse l’erogatore di ossigeno. Poi, dal 2014 al 2017 (i dati dell’ultimo anno sono basati sulle previsioni), il clima è un po’ cambiato e l’austerità nel complesso si è attenuata, soprattutto per effetto delle decisioni del governo di Madrid e di quello di Roma.

Ma le scelte sovranazionali hanno costretto la Grecia a continuare a tagliare la spesa pubblica. E la Germania, il Paese più solido, non ha voluto aprire i cordoni della borsa e attuare politiche espansive che avrebbero generato maggiore domanda e permesso anche ai vicini di respirare. Alessandrini si guarda bene dall’addossare alcuna responsabilità all’euro in sé, che a suo giudizio, «ha fatto più di quanto poteva; piuttosto, è mancata una vera politica fiscale». Il professore si spinge ancora più in là: «L’euro è la vittima, più che l’artefice della crisi europea», oppure, per usare un’altra metafora, «è il termometro che misura la febbre, non la malattia».

Ecco perché, da qui a concludere “tutta colpa della Germania”, ce ne passa. Anticipiamo i risultati della domanda numero 11. Il senso era se e a quali condizioni restare nell’euro: solo un interpellato sostiene di uscire «costi quel che costi» (un altro ha detto di provare a restare almeno nell’Unione europea, poi se non si riuscisse lasciare comunque), mentre la metà dice che l’Italia deve restare, perché la politica «scarica sulla moneta unica la propria incapacità di fare le riforme». I dati economici, in realtà, indicano che l’euro ha funzionato per parecchi anni. Lo certificano i dati elaborati da Alessandrini, relativi al fatidico spread, la forbice fra i rendimenti dei titoli di Stato.

È un fattore importante perché misura quanto uno Stato deve pagare in più rispetto a un altro per finanziarsi sui mercati. Guardiamo l’Italia e la Germania, i Btp e i Bund: nel 1993 lo spread era all’8 per cento, nel 1995 tra il 6 e il 7 per cento. Ha iniziato a diminuire con la convergenza verso l’euro, ed è stato vicinissimo allo zero per dieci anni, dal 1998 al 2008. Chi sostiene che la moneta unica «già non esiste più» guarda il periodo successivo, soprattutto tra il 2011 e il 2012, dov’è stato a lungo tra il 4 e il 5 per cento. È un ragionamento fondato, perché due Paesi con la stessa valuta come Italia e Germania dovrebbero poter garantire lo stesso rendimento, altrimenti il sistema economico tedesco ne ha un vantaggio troppo grande, perché può finanziarsi a zero e l’altro no.

Qui c’è un problema. Se si ritornasse alle valute nazionali, probabilmente si tornerebbe a una situazione in cui l’Italia e gli investitori pagherebbero tassi altissimi, i tedeschi no. Il punto, dunque, è capire bene che cos’è successo quando l’euro funzionava. In quegli anni, soprattutto durante i governi di Silvio Berlusconi, il debito pubblico invece di diminuire (com’era accaduto prima dell’euro) è tornato a crescere, e non si è fermato nemmeno dopo. In sostanza: i governi hanno risparmiato decine di miliardi di euro in minor spesa per interessi rispetto a quanto accadeva ai tempi della lira, ma invece di destinare quei quattrini allo sviluppo o alla riduzione del debito, hanno campato di rendita, sperperando risorse preziose. Si sono accumulati così squilibri nei conti pubblici, e poi negli scambi internazionali, che non sono mai stati aggiustati.

Andrea Terzi, economista della Franklin University di Lugano e autore di un saggio dal titolo molto esplicito, «Salviamo l’Europa dall’austerità» (editore Vita e Pensiero), osserva che le politiche restrittive hanno depresso la capacità di spesa del settore privato e fatto crescere le divergenze fra i Paesi. Ma si concentra anche su quanto non ha fatto l’Italia durante i periodi di vacche grasse, motivo per cui siamo comunque il fanalino di coda dell’Eurozona: «A pesare sulla posizione relativa dell’Italia c’è la questione della scarsa efficienza del sistema Paese, che avrebbe bisogno di semplificare l’amministrazione, rendere più agile il sistema giudiziario, migliorare i trasporti. Su tutti questi fronti abbiamo elaborato un ritardo grave che, oltretutto, incide sulla nostra autorevolezza nella riformulazione delle politiche comuni». Quelle che andrebbero riformate facendo la voce grossa ma sulle quali l’Italia, appunto, non riesce a toccare palla perché si presenta sempre come l’allievo negligente che non ha fatto i compiti a casa. E per gli altri Paesi è più facile da zittire.

Imprenditori in fuga
La diagnosi sugli effetti più tangibili dell’euro e delle politiche che lo hanno accompagnato, dal punto di vista della vita quotidiana, entra nel vivo con le domande che vanno dalla 2 alla 6. Gran parte degli esperti ritiene che la moneta comune non c’entri granché con la disoccupazione crescente (per il 36 per cento ha influito «poco», per il 32 «per nulla»), mentre quasi la metà ritiene che l’euro abbia contributo a ridurre il potere d’acquisto dei lavoratori italiani «assieme ad altri fattori». Su temi come questi, le convinzioni appaiono molto forti. E l’euro viene considerato da molti come un falso bersaglio: «Quella che l’euro abbia fatto aumentare la disoccupazione è una delle sciocchezze che cerco da tempo di denunciare», dice Andrea Boitani, professore di Economia monetaria alla Cattolica, autore del libro “Sette luoghi comuni sull’economia” (Laterza). Nella sua analisi la crisi del lavoro era iniziata già negli anni Novanta, ed è dovuta «all’insipienza di molti imprenditori italiani e all’incapacità della politica di investire dove davvero andava fatto, ovvero nella ricerca di base, che serve a creare le condizioni perché gli imprenditori trovino le idee da sviluppare commercialmente».

Questo ha pesato moltissimo su due settori chiave per l’occupazione, come l’elettronica e la chimica, alla quale sono legati altri comparti essenziali, tipo la farmaceutica e la biomedicina. «Quella della bassa crescita, e dunque della scarsa occupazione, è una malattia specifica dell’Italia, che non ha niente a che vedere con la moneta unica, come dimostra il fatto che in altri settori, la meccanica di precisione, la moda, il design, le cose sono andate in tutt’altro modo», osserva Boitani.

Anche Marco Bentivogli, segretario dei metalmeccanici della Cisl, parte da considerazioni simili. Certo, l’euro ha avuto inizialmente effetti inflazionistici perché il governo Berlusconi aveva affidato i controlli sui prezzi alle Camere di commercio: «Come mettere una volpe a guardia del pollaio», dice il sindacalista. A questo si è sommato il fatto che la lira fosse stata fortemente rivalutata prima di entrare, una ricetta che al principio ha avuto un duro contraccolpo sull’industria, osserva l’imprenditore vicentino Massimo Carboniero, che con la sua Omera costruisce macchine per la lavorazione della lamiera (esporta il 70 per cento della produzione) e presiede l’Ucimu, l’associazione dei produttori di macchine utensili.

Oggi, però, dal punto di vista del lavoro, i problemi sono altri. «Una valuta forte è stato uno choc per un Paese come il nostro, abituato a esportare giocando sulle svalutazioni e sui prodotti di bassa qualità. Ma è un punto di forza per un Paese manifatturiero che punta sulla qualità e sul futuro», sostiene Bentivogli. Secondo il sindacalista, nelle difficoltà degli ultimi anni, questo cambio di pelle l’Italia lo ha già avviato da tempo. L’esempio che fa è quello della Fiat Duna e dell’Alfa Romeo Arna, due mode lli improponibili con cui le case au tomobilistiche avevano provato a campare tra g li anni Ottanta e i Novanta, quando «non investivano e sopravvivevano grazie alle periodiche svalutazioni della lira». Nel 2016, invece, l’Italia ha avuto un surplus commerciale di 51,6 miliardi, dieci in più rispetto a un anno prima e il livello più elevato dal 1991, quando inizia la serie storica elaborata dall’Istat: «Chi ha contribuito a questo risultato è il made in Italy di qualità, l’agroalimentare, il manifatturiero: settori che soccomberebbero senza la moneta unica», dice Bentivogli.

Illusione export
Qui arriviamo al cuore delle argomentazioni dei no-euro: con la lira, esporteremmo di più. Domanda numero 5: che cosa è accaduto alle esportazioni italiane, con l’euro? Le percentuali fotografano un testa a testa fra due possibilità, e cioè tra «sono state leggermente danneggiate ma oggi contano altri fattori» (40 per cento) e «sono state favorite dall’appartenenza a un’area valutaria più estesa» (42). Pochi (il 2 per cento) dicono che hanno avuto benefici consistenti, un po’ di più (il 12) che «sono state danneggiate in maniera decisiva». Domanda numero 8: l’uscita dalla moneta unica rilancerebbe il sistema produttivo interno? Solo il 2 per cento degli interpellati ritiene che questo argomento sia «vero», il 6 per cento «fondato». Tutti gli altri lo definiscono «infondato» o «falso».

Massimo Carboniero, dopo aver sottolineato il danno iniziale del cambio lira-euro sopravvalutato, preferisce guardare avanti: «Per esportare, oggi i punti di forza sono tecnologia, qualità, servizio, flessibilità. Tutte doti che noi abbiamo, e che possiamo far valere grazie alla moneta comune, che rappresenta un vantaggio operativo, economico e industriale» dice l’industriale delle macchine utensili, secondo il quale il ritorno alla lira ci renderebbe troppo deboli «nella competizione con colossi come il dollaro americano, lo yen giapponese, lo yuan cinese». Certo, queste doti andrebbero coltivate, e qui torniamo a ciò che la politica non ha fatto quando avrebbe dovuto, cioè, dice Carboniero, tagliare le tasse e i contributi che gonfiano il costo del lavoro: «Fatto 100 quanto prende in busta paga, un mio dipendente mi costa 220; in Germania, 180». Batte su un punto simile Pasquale Natuzzi, l’industriale pugliese dei divani: «Un ritorno alla lira non eliminerebbe i problemi legati alla non competitività del nostro Paese. Sarebbe più serio iniziare a discutere di come rimanere nell’euro, assumendoci le nostre responsabilità. Non è colpa dell’euro se in Italia si tollera un’evasione fiscale e contributiva che, sistematicamente, ogni anno supera i 110 miliardi di euro. Se non si pone un freno a questo fenomeno e non si affronta la sfida di riformare in maniera strutturale il nostro Paese, ci sarà sempre un’Europa che continuerà a viaggiare a una velocità superiore alla nostra. Solo un’Europa forte, unita e unica, può avere un ruolo all’interno di uno scenario economico mondiale dominato da due colossi quali la Cina e gli Usa».

Meglio soli
Non tutti la pensano così. Carlo Alberto Baesso, amministratore delegato di Eurven, un’azienda trevigiana che produce macchine per riciclare i rifiuti «L’attuale situazione europea è di demoralizzazione, sfiducia, decadenza. Non vogliamo più essere quell’Europa, siamo l’Italia e non dobbiamo temere nulla, siamo capaci, intelligenti, creativi e perspicaci. Siamo il faro e il riferimento a livello mondiale in quanto a stili, mentalità e design. Ma con questa Europa, che ci dice come dobbiamo comportarci e lavorare, non funziona e non funzionerà mai. Dobbiamo avere il coraggio di fare da soli con i rischi e i pericoli annessi e connessi. Serve il coraggio di cambiare e di assumersi le proprie responsabilità». Pronto a tornare alla lira, se non ci saranno riforme profonde, appare anche Eugenio Sapora, fondatore de “l’Alveare che dice sì”, piattaforma online per prodotti chilometro zero: «La moneta unica è un’ottima intuizione ma non può funzionare senza una solidarietà totale del debito pubblico. L’unica soluzione al mantenimento dell’euro è una politica fiscale comune e condivisa».
L’ESPRESSO

 

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