Hollande: “Per non morire l’Europa deve essere a geometrie variabili”
«L’Europa dei Ventisette non può più essere l’Unione uniforme a Ventisette», sentenzia François Hollande con voce grave. Molte cose sono cambiate, nella politica continentale e negli assetti globali, così «non si può più accettare che alcuni Paesi impediscano agli altri di andare avanti». Il presidente francese assicura che, «se vogliamo fare tutto, tutti insieme, rischiamo di non fare nulla», pertanto non resta che giocare la carta delle geometrie variabili. «Per molto tempo – ammette il leader socialista -, l’idea di un’Europa diversificata, con velocità differenti, ha suscitato resistenza: oggi è l’idea che si impone, sennò sarà l’Europa a esplodere».
Mancano poche settimane al «grande addio», ma nelle stanze dell’Eliseo non c’è affatto aria di trasloco. L’ordine dell’ufficio al primo piano di Hollande, che non parla del suo futuro è perfetto: ogni oggetto ha il suo posto e il suo senso, è un simbolo forte la tessera antica del partito socialista esposta su una mensola, come lo sono le vignette di Coco che si prendono (amabilmente) gioco del presidente. La stagione richiede coraggio, suggerisce autocritica e impone nuove scelte.
I populisti sono alle porte e il primo cittadino della République invita l’Europa a darsi un’altra rivoluzione, partendo già da Roma il 25 marzo. Schiera la Francia col partito delle più velocità, con Germania e Italia. «O agiamo in modo diverso – confessa -, o non saremo più insieme».
Presidente, una vittoria di Marine Le Pen sarebbe un pericolo mortale per l’Europa?
«La minaccia esiste, l’estrema destra non è mai stata così forte da 30 anni. Ma la Francia non cederà. È consapevole che il voto determinerà non solo il destino del nostro Paese, ma anche l’avvenire della costruzione europea, perché – se per caso dovesse affermarsi – la candidata del Fn si impegnerebbe in un processo di uscita da Eurozona e Ue. È l’obiettivo dei populisti: lasciare l’Europa, isolarsi e immaginare un avvenire circondati da barriere e frontiere difesa da guardie armate. La mia ultima missione è fare il possibile perché la Francia non si faccia convincere da un simile progetto e non si carichi di questa pesante responsabilità».
L’Europa, che festeggia i 60 anni il 25 marzo, è in crisi.
«Si, ma non ho perso speranza. Voglio dare all’Europa l’immagine che merita: un progetto, una forza, una potenza. Gli europei chiedono che l’Europa li protegga, che difenda le frontiere, li assicuri dai rischi del terrorismo e conservi lo stile di vita, la cultura, la comunione di spiriti».
Per proteggersi, gli europei devono potersi difendere?
«La Difesa è un argomento scientemente evitato dai Trattati di Roma. Oggi l’Europa può invece rilanciarsi con la Difesa, per garantirsi la sicurezza, essere attiva a livello globale, cercare le soluzioni ai conflitti che la minacciano. Questa deve essere, in coerenza con l’impegno Nato, la nostra priorità».
Come funzionerebbe il raccordo con la Nato?
«L’Alleanza è necessaria e l’Europa della Difesa non la contraddice. La Nato si fonda sulla solidarietà: se un Paese è aggredito, gli altri lo assistono. Trump è parso esitare, ma poi ha ribadito il sostegno per discutere meglio la condivisione degli oneri. Ciò che conta, adesso, è l’affidabilità dei partner».
Trump accelera la costruzione d’una Difesa europea?
«Si! Ne eravamo persuasi anche prima della sua elezione, ma l’annuncio d’un disimpegno americano ha favorito una piena presa di coscienza. L’Europa deve evitare le posizioni di dipendenza. La consapevolezza c’è. Va tradotta in un migliore coordinamento delle politiche di Difesa e nell’integrazione delle forze».
Il Regno Unito ha un ruolo nell’Europa della Difesa?
«Non tutti gli stati dell’Ue sarebbero parte dell’Europa della Difesa. Propongo una cooperazione strutturata, per federare i Paesi che vogliono andare più lontano. Per quanto uscito dall’Ue, il Regno Unito dovrebbe associarci a questo progetto».
Ha invitato Germania, Italia e Spagna a Versailles. Come mai questo formato?
«Con la cancelliera Merkel ci consultiamo regolarmente prima dei vertici, è nell’interesse dell’Europa. Il sessantesimo dei Trattati si tiene a Roma, dunque è sembrato logico associare Italia e Spagna. Non si tratta di imporre le idee di quattro Paesi, bensì di far avanzare l’Europa con determinazione, con un impegno che vada al di là dei nostri mandati, nel momento in cui la Commissione presenta gli scenari per il futuro».
Il patto franco-tedesco non basta più?
«È indispensabile. Se non c’è fiducia fra Francia e Germania, l’Europa non avanza. Ma non è sufficiente. Quando con la signora Merkel troviamo un accordo, poi dobbiamo convincere gli altri».
L’hanno accusata di debolezza rispetto alla cancelliera.
«La Francia ha portato la Germania più lontano di dove aveva previsto. Sull’Unione bancaria e sulla Grecia, caso in cui abbiamo evidenziato quanto sarebbe costata l’uscita dall’Eurozona, e loro ne hanno tenuto conto nel dibattito sugli impegni, poi rispettati da Tsipras».
Avete fermato Schaeuble?
«Diciamo che lo ha capito da solo. Potevamo esultare, ma se un gioco richiede frasi come “è la Francia che ha vinto con la Germania”, o viceversa, alla fine perdono tutti».
Nel 2012 promise di «riorientare l’Ue». Ci è riuscito?
«Si. Abbiamo introdotto una certa flessibilità nell’interpretazione delle regole di bilancio europee, il che ha permesso a Italia e Spagna di evitare sanzioni, e alla Francia di scampare a un’austerità distruttrice. L’Unione bancaria ha archiviato le crisi creditizie, ora pagano gli istituti non il contribuente. Il piano Juncker per gli investimenti è stato prolungato e amplificato. A dire che non l’abbiamo fatto sono, in effetti, quelli che rifiutano le regole».
Cioè la metà dei candidati presidenziali.
«Vero. Ma ciò che mi inquieta di più in Europa è il ritorno degli egoismi nazionali. Ogni Paese insegue l’interesse immediato senza contribuire a un’ambizione comune, così nessuno è soddisfatto e l’Europa perde. Senza un nuovo spirito europeo, l’Unione andrà a pezzi. Sento dire sempre più spesso “paghiamo più di quello che otteniamo”. È il ritorno della Thatcher e del “I want my money back”. Il Regno Unito se ne va, il cattivo spirito resta».
Ci sono alternative alle più velocità per l’Europa?
«In futuro, ci sarà un patto comune, un mercato interno e – per alcuni – una sola moneta. Su questa base sarà possibile, per chi vorrà, andare più lontano con la Difesa, l’armonizzazione fiscale o sociale, la ricerca, la cultura, la gioventù. In breve, dobbiamo immaginare dei diversi livelli di integrazione».
I cittadini non amano più l’Europa. Che errori avete commesso?
«L’allargamento è stato ispirato da principi rispettabili, ma ha permesso che dei Paesi venissero a fare concorrenza agli altri a condizioni molto vantaggiose. Avremmo dovuto immaginare una transizione più lunga. Oltre a questo, l’Europa non ha difeso a sufficienza i propri interessi commerciali, ha voluto essere esempio di apertura, però ha dato l’impressione di concedere troppo agli emergenti. Dobbiamo combattere il protezionismo, ma lottare contro il dumping. A partire dall’acciaio cinese».
E poi?
«Il problema maggiore dell’Europa è la lentezza delle decisioni. Facciamo piuttosto bene, ma troppo tardi. Quanto ci è voluto per l’accordo con la Grecia? E l’Unione bancaria? I rifugiati? Il terrorismo? Le nostre modalità non sono adatte al mondo dell’urgenza. I populisti vivono nell’immediatezza di twitter. Per essere efficaci dobbiamo essere veloci».
Che messaggio manda ai britannici che se ne vanno?
«Che saranno un Paese terzo e non avranno i vantaggi del mercato unico. È stata una scelta sbagliata nel momento sbagliato. Mi dispiace».
Donald Trump l’inquieta?
«Non è una questione di emozioni o convinzioni. È una realtà politica di quattro anni. Adesso conosciamo le sue linee di condotta: l’isolazionismo, la chiusura all’immigrazione e la fuga in avanti col bilancio. L’inquietudine nasce dall’incertezza e l’euforia dei mercati mi pare decisamente prematura. Quanto alla sua cattiva conoscenza delle cose europee, è il fattore che ci costringe a dimostrargli la nostra coesione, la nostra forza economica e la nostra autonomia strategica».
La vittoria di Trump gioca pro o contro i populisti?
«Tutte e due le cose. Da un lato dà credito ai nazionalisti. Dall’altro, propone a chi è aperto, ai progressisti che sono perlopiù europeisti, l’occasione di realizzare il loro progetto. In un certo senso, contribuisce a far chiarezza».
Che livello di minaccia rappresenta la Russia per le democrazie?
«La Russia vuole essere rilevante negli spazi che un tempo erano parte dell’Unione Sovietica, come in Ucraina. La Russia vuole partecipare alla risoluzione dei conflitti per trarne vantaggio, lo si vede in Siria. La Russia si afferma come potenza. Testa la nostra resistenza e misura i rapporti di forza. Allo stesso tempo, utilizza tutti i mezzi per influenzare le opinioni pubbliche. Non è la stessa ideologia dei tempi dell’Urss, ma sono spesso le stesse procedure, più le tecnologie. Ha una strategia di influenza, di rete e anche la pretesa di difendere la cristianità. Non esageriamo nulla, ma si deve mantenere l’attenzione».
Come si deve trattare con Mosca?
«Mi chiedono spesso “perché non dialogate di più con Putin?”, ma io non ho mai smesso di parlargli! L’ho fatto insieme con la cancelliera Merkel ed è stato un bene. Parlare non vuol dire arrendersi. Parlare vuol dire agire per trovare le buone soluzioni. Dire che in Siria, senza la partecipazione dell’opposizione, non ci sarà una soluzione politica. È una prova anche per l’Europa: se sarà forte e unita, la Russia vorrà mantenere una relazione duratura ed equilibrata. Quanto alle operazioni ideologiche, è necessario smascherarle, dire chiaramente chi è con chi e chi finanza cosa. Perché tutti i movimenti di estrema destra, chi più chi meno, sono legati alla Russia».
Parliamo di Italia. Renzi doveva essere il suo compagno di strada naturale. Non sembra essere andata benissimo.
«Ho avuto dei buoni rapporti personali e politici con Renzi. Abbiamo spinto insieme per la flessibilità di bilancio, per un piano Juncker ancora più robusto, e ho appoggiato la sua richiesta perché l’immigrazione non pesi solo sul Paese di prima accoglienza».
Buoni rapporti? Anche se impedite l’acquisto di Stx?
«La Francia non si oppone a che Fincantieri entri nel capitale di Stx. Noi diciamo solo che non possono avere la maggioranza. Non si tratta di una misura aggressiva o difensiva nei confronti dell’Italia, perché se altre imprese – indipendenti da Fincantieri – volessero partecipare all’operazione, siamo pronti a studiare una soluzione. L’ho detto al mio amico Paolo Gentiloni».
Non è protezionismo? In Italia c’è chi è ossessionato dall’idea di una strategia di invasione francese.
«Ogni Paese ha interesse a tutelare i posti di lavoro e proteggere gli interessi industriali, ma io sono favorevole a che in Europa si possano costruire gruppi di taglia globale. Come Airbus, ad esempio».
LA STAMPA