Call center, il piano di rimpatrio del governo

di VALENTINA CONTE

ROMA. Riportare in Italia i call center. E creare così 20 mila posti di lavoro. Il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda è pronto a convocare i principali committenti italiani – le aziende di telecomunicazioni, energia, banche, assicurazioni, tv a pagamento, multiutility – e invitarli a firmare un Protocollo di intesa con cui si impegnano a svolgere il 100% delle attività interne, quelle cioè che utilizzano strutture e personale proprio, sul territorio nazionale senza reindirizzare il traffico al di fuori del Paese. E soprattutto a garantire che almeno l’80% dei volumi di chiamate dei call center affidati all’esterno, ovvero in outsourcing, sia effettuato in Italia. E dunque rimpatriato. Un’operazione di reshoring, la chiamano al Mise. Una mossa alla Trump, per dire: Italy first, l’Italia prima di tutto.

Positive Cisl e Uil. Il piano non dispiace a Cisl e Uil. “Mette in evidenza la buona volontà del governo di agire in un settore in crisi e chiama in causa i committenti che non devono incidere sui più deboli per sistemare i bilanci”, commenta Vito Vitale, segretario generale di Fistel Cisl. “Un fatto più che interessante. Certo, bisogna capire chi e come risponderà. E scommettere sul senso di appartenenza delle aziende al territorio italiano”. Anche Salvo Ugliarolo, segretario generale Uilcom, valuta il piano Calenda in modo positivo: “Dà attenzione a un mondo abbandonato a se stesso negli ultimi 5-6 anni, con carenze di regole e vuoti normativi che hanno compromesso la tenuta occupazionale. Chiediamo però al ministro un coinvolgimento anche delle parti sociali. Perché non riaprire il tavolo permanente sui call center, convocato l’ultima volta nella primavera del 2016?”.

Critica la Cgil. Di tutt’altro tono il giudizio di Marco Del Cimmuto, segretario nazionale Slc Cgil: “Non abbiamo ancora visto il testo, ma da quanto capiamo ci sembra un provvedimento inefficace, nonostante abbia il merito di riportare l’attenzione sul settore. Inefficace intanto perché stabilire un tetto del 20% alle delocalizzazioni, non significa solo riportare posti in patria, ma anche incentivare chi non l’ha ancora fatto ad andare all’estero, per un 20% appunto. Il Protocollo poi ignora altri interventi urgenti. Ne indichiamo quattro. Primo, superare le gare a minutaggio di conversazione (ti pago tot centesimi al minuto, ma difficile farne più di 40-42 in un’ora) per passare alle gare a corpo (ti pago tot ore a prescindere dalle chiamate). Secondo, inserire l’obbligo di rispondere al cliente in un tempo limitato: un requisito che elimina dal mercato le imprese che si improvvisano call center, senza averne l’organizzazione. Terzo, divieto assoluto di gare in subappalto. Quarto, ammortizzatori sociali ordinari per il settore e non da contrattare di anno in anno nella finanziaria. In conclusione, non vorremmo che il Protocollo risenta del contesto anche politico. Che sia cioè un provvedimento spot, dal carattere vincolante assai basso, affidato alla singola volontà dei committenti e di chiaro stampo elettoralistico”.

Le aziende. “Il Protocollo non è obbligatorio, impegna solo le aziende che desiderano partecipare a questo percorso”, osserva anche Paolo Sarzana, presidente Assocontact, associazione nazionale dei contact center aderente a Confindustria digitale. “Non sono previsti parametri vincolanti o precisi su come erogare i servizi, né obblighi per le aziende ad essere in regola con il Durc e dunque a pagare i contributi ai lavoratori, o ad avere un sistema di certificazione di qualità. Senza paletti chiari e inequivocabili, lo sforzo apprezzabile del ministro rischia di trasformarsi in una moral suasion generica. Certo, un tentativo di garantire maggior lavoro in Italia, ma non di rimettere in equilibrio un mondo in cui il servizio offerto non è ancora pagato il giusto. E poi è auspicabile che dal Protocollo si passi a una vera riforma del settore, una legge che obblighi tutti a rispettare regole più stringenti”.

Il Protocollo. Secondo quanto si legge nelle bozze del Protocollo, le imprese che si avvalgono dei call center per gestire i rapporti con la clientela (sia per rispondere a richieste di chiarimento o supporto, inbound, sia per le chiamate di promozione commerciale, outbound) entro sei mesi dalla firma del documento si impegnano a:

  • richiedere nelle offerte ai propri fornitori di servizi telefonici alcuni parametri di qualità e cioè: chiarezza, semplicità e correttezza nelle informazioni, un italiano corrente e un linguaggio chiaro e comprensibile (per gli stranieri è indispensabile la certificazione linguistica al livello C1 del Qce), risposte adeguate entro tempi contrattualmente definiti, applicabilità della normativa nazionale in termini di trattamento dei dati personali anche se il servizio è fornito dall’estero, il rispetto delle fasce orarie indicate dalla legge per i contatti telefonici;
  • garantire che il 100% delle attività di call center svolte per il mercato italiano in via diretta sia effettuato sul territorio nazionale e che almeno l’80% dei volumi delle attività di call center affidati in outsourcing provenga dall’Italia, escludendo qualsiasi meccanismo di reindirizzamento del traffico verso siti localizzati fuori dal Paese;
  • non effettuare aste al massimo ribasso, ma adottare il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per l’assegnazione dei servizi  in outsourcing, valorizzando gli aspetti tecnici e qualitativi dell’offerta;
  • fare riferimento per gli affidamenti esterni ad un costo medio del lavoro su base oraria definito dal decreto legislativo n. 50 del 2016, dunque il minimo contrattuale, ovvero sulla base di accordi con i sindacati;
  • applicare nei propri contratti di outsourcing la “clausola sociale” e dunque garantire la continuità occupazionale sul territorio nei casi in cui il call center perda la commessa e l’azienda che subentra non sia disposta a mantenere tutti i posti di lavoro.

Gli italiani che lavorano nei call center sono circa 80 mila. Molte aziende italiane utilizzano però call center esteri, perché hanno un costo del lavoro molto più basso, bruciando così opportunità nazionali, vedi il caso Almaviva.

Si stima che circa 25 mila addetti tra Romania, Albania, Polonia, Croazia, Tunisia, Marocco lavorino per l’Italia. Il governo punta a cancellare l’80% di queste commesse e dunque a creare qui 20 mila nuovi posti di lavoro.

REP.IT

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