Le primarie del Pd sotto il peso delle inchieste

di Marco Damilano

Le favole prima o poi finiscono, le persone restano», ha scritto Matteo Renzi nella sua e-news del 27 febbraio. Parlava dell’esonero di Claudio Ranieri, l’allenatore del Leicester passato in un anno dal trionfo della squadra outsider assoluta in Premier League alla cacciata dalla panchina. «Gli stessi che esaltavano l’impresa, hanno maramaldeggiato sul mister romano. Ma chi conosce Ranieri sa che lui tornerà, mentre i giocatori che l’hanno tradito… chissà».

Ma è impossibile non pensare che l’ex premier alluda ad altro: a chi sta scendendo dal suo carro, a chi lo sta sostenendo con scarso entusiasmo, a chi non lo ha tradito oggi perché si prepara a farlo domani. Della prima categoria fanno parte i due contendenti alle primarie del 30 aprile per eleggere il segretario del Pd. Il primo, Michele Emiliano, all’ultimo congresso fu tra i maggiori sponsor della candidatura Renzi: al punto che l’allora sindaco di Firenze decise di lanciare la sua candidatura a Bari, il 12 ottobre 2013, con il collega e padrone di casa Emiliano nelle prime file, in un salone della Fiera del Levante enorme e grigio, come tutto in quel pomeriggio: grigia la platea, grigio il fondale, grigio il cielo, grigio perfino il mare. L’altro competitore, Andrea Orlando, appoggiò la candidatura di Gianni Cuperlo, ma fu il primo ad ammettere la sconfitta e a lanciare la strategia della collaborazione con il nuovo segretario: «La vittoria di Renzi è un segnale molto netto di cambiamento che dobbiamo sapere interpretare e raccogliere».

In esclusiva i nuovi elementi sul caso Consip che coinvolge il padre di Matteo Renzi, Denis Verdini e Luca Lotti e fanno emergere un vero e proprio sistema di potere; un lungo approfondimento sul declino dell’Occidente con un contributo di Ezio Mauro e altri intellettuali; l’intervista all’infermiera di Lugo sospettata di essere una serial killer. Il direttore Tommaso Cerno e il vicedirettore Marco Damilano raccontano cosa troverete sul settimanale in edicola da domenica

I tre sono avversari, per la guida del Pd frantumato e spezzato dalla scissione di Pier Luigi Bersani. E si ritrovano a gareggiare sul terreno più inatteso e pericoloso, quello della giustizia. Orlando è il ministro di via Arenula da quattro anni, da quando Giorgio Napolitano al Quirinale depennò dalla lista dei ministri del governo che stava per nascere il nome del magistrato Nicola Gratteri e Renzi inserì quello del capo dei giovani turchi Pd.

Emiliano è un magistrato in aspettativa e il Csm dovrà pronunciarsi su di lui per la sua iscrizione a un partito. E Renzi si vede accostato a una importante inchiesta giudiziaria in cui, al di là del profilo penale, rischia di essere messo politicamente sotto accusa l’intero sistema di potere costruito in tre anni di governo: parenti, amici, alleati, nominati.

Il Contesto, lo avrebbe chiamato Leonardo Sciascia, che fa da sfondo al lavoro delle procure di Roma e di Napoli. In cui manca un solo aspetto: il partito. Un pianeta sconosciuto negli anni del renzismo trionfante. Nelle primarie chiamate a scegliere il segretario del Pd irrompe il fattore M, teorizzato dal politologo Mauro Calise: magistratura e media. Come accadde venticinque anni fa, nel 1992 dell’operazione Mani Pulite: torna la proporzionale, tornano le scissioni a sinistra. E tornano anche le inchieste giudiziarie. Con una variante finora inedita. Non si era mai visto, per esempio, un candidato alla segreteria che va in Procura per testimoniare contro il cerchio magico di un altro candidato, per di più segretario uscente e ex premier.

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E invece Emiliano è stato chiamato a testimoniare di fronte ai magistrati di Roma sul caso Consip, sugli sms già mostrati al Fatto Quotidiano in cui il ministro Luca Lotti, braccio destro di Renzi, dimostrava di conoscere l’imprenditore Carlo Russo, amico di Tiziano il padre dell’ex premier, e consigliava a Emiliano di incontrarlo (su domanda del presidente pugliese). Il terzo candidato, il ministro della Giustizia, invita a bloccare il fango che potrebbe abbattere tutta la casa, il partito. Ma è un appello che appare rituale e inutile, perché la guerra è appena cominciata. E al centro c’è Matteo Renzi.

La favola si è spezzata, l’ex premier lo sa bene, non il 4 dicembre 2016, il giorno del rovinoso referendum costituzionale, ma esattamente un anno prima, il 13 dicembre 2015. Quando, nel pieno dell’edizione annuale dell’incontro alla stazione Leopolda, che sta ai renziani come il pellegrinaggio alla Mecca ai musulmani, cominciò sul piano politico e mediatico il caso di Banca Etruria: il suicidio di un pensionato, l’attacco di Roberto Saviano, il silenzio del ministro Maria Elena Boschi, assente per quasi tutta la giornata. Nell’intervento finale Renzi affrontò la questione. Ma invece di parlare della Boschi e di suo padre (vice-presidente di Banca Etruria nel periodo sotto inchiesta), il premier preferì mettere in scena una specie di dialogo tra lui e suo padre Tiziano a proposito delle vicende giudiziarie: «Mio padre mi sta accusando di sbagliare strategia contro le insinuazioni e le continue polemiche. Ha ricevuto un avviso di garanzia quindici mesi fa, non ieri. Si è sentito crollare il mondo addosso, lui che un giorno sì e l’altro pure parlava di onestà. Gli abbiamo detto: “nessuno dubita di te”. Lui però risponde: “I giornali, le provocazioni, i comunicati… voglio replicare”. Non è semplicissimo dirgli: “zitto e aspetta”. Ma su questo non dirò mezza parola perché penso che il rispetto tra i poteri sia tra le migliori cose dell’Italia».

Lessico famigliare. Quindici mesi ci fu il dubbio che il dialogo tra padre e figlio interpretato davanti alle telecamere fosse in realtà un artificio retorico, per mettere in scena un contrasto tra il premier e il ministro Boschi, o addirittura tra due spinte interne allo stesso Renzi: quella che lo trascinava allo scontro contro i magistrati e i media e quella che gli consigliava prudenza e rispetto.

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Ma oggi lo storytelling di casa Renzi torna di attualità, con l’indagine che coinvolge in prima persona Tiziano, questa volta non come imprenditore dell’azienda di famiglia ma – secondo l’accusa e il supertestimone Luigi Marroni, ad della Consip – come rappresentante di un sistema che non sarebbe stato possibile senza la presenza di Matteo a Palazzo Chigi.

Anche oggi, in prima battuta, prevale in Renzi la linea del rispetto e della prudenza. «Conosco mio padre, ma aspetto i processi e il termine del lavoro dei magistrati: se qualcuno ha sbagliato deve pagare», ha ripetuto Renzi in questi giorni. Nessun attacco ai pm. Ma nell’attesa che l’inchiesta faccia il suo corso e che si arrivi, eventualmente, a un processo, gli ultimi sviluppi smontano in modo definitivo la favola renziana. Quella che recitava più o meno così: c’era una volta un ragazzo di Rignano, outsider senza nessuno alle spalle, che scalò la politica nazionale fino ad arrivare a Palazzo Chigi senza aver fatto un giorno da parlamentare…

La favola si capovolge nel suo opposto. La sana provincia toscana da cui viene il premier appare una ghirlanda, intrecciata e asfissiante, come quella di cui scrisse Luciano Mecacci a proposito del delitto di Giovanni Gentile nel 1944. Prima ancora che un catalogo di reati, da dimostrare e da accertare, ed è il compito della magistratura, le affermazioni dell’ad di Consip raccontano di un’incredibile confusione di ruoli e di livelli, non meno gravi sul piano politico.

All’ombra del giovane premier, impegnato a governare l’Italia, si agitano i petali del Giglio, fin troppo. Si forma una zona grigia in cui si incrociano i beneficiati del nuovo potere: i nominati ai vertici delle partecipate di Stato, i plenipotenziari, le forze di sicurezza e perfino il pater familias che invade ambiti non suoi e che si qualifica pronunciando soltanto il nome, anzi, il cognome. Matteo non viene mai evocato, ma è la causa implicita, innominata, che tutto muove. Perché solo l’aspettativa all’interno degli apparati dello Stato di una lunga stagione di comando renziano, dieci anni come preconizzato dall’allora premier («farò al massimo due mandati e poi mi ritiro») o ancora di più, come temevano gli avversari, spiega questa sovrapposizione dei piani.

L’inchiesta esclusiva su Giglio Nero, ovvero le storture del Giglio magico e i tentativi che avrebbero fatto il padre di Matteo Renzi, Denis Verdini e il faccendiere Carlo Russo per sedersi al tavolo degli appalti. Uno scandalo politico che racconta un sistema di potere che ha dominato il Paese ma che troppo spesso si è infilato in storie poco chiare. Questo è il racconto di Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia in edicola sull’Espresso domenica 5 marzo

Sotto il grande leader ci sono piccoli interessi, rivalità, localismi, familismi. Non è una novità nella politica italiana. Di nuovo c’è che nella stagione della personalizzazione estrema della politica i parenti e gli amici finiscono per sostituire le strutture di partito e perfino di governo. Nell’incapacità di costruire una classe dirigente più ampia, nella creazione di gruppi sempre più chiusi e asfittici, nella mancanza di fiducia verso chi non appartiene ai fedelissimi di sempre, si nascondono le premesse delle reti informali, non legittimate da nessuno, in cui poi diventano possibili gli arbitri e gli abusi di potere. È la lezione degli ultimi mesi, toccata anche al Movimento 5 Stelle: i cerchi, i gigli e i raggi magici finiscono per soffocare il leader che inconsapevole o no li ha prodotti o ne ha fatto uso.

E ora le primarie per Renzi si complicano, così come tutto il resto: il percorso verso le prossime elezioni, il rapporto con il governo Gentiloni, la guerra contro gli scissionisti del Pd, il futuro della sua leadership. E assume un significato diverso la frase dell’ex tesoriere Ds Ugo Sposetti di qualche giorno fa: «Renzi? Chi l’ha detto che alla fine il segretario sarà lui?».

L’ESPRESSO

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