Progresso (e declino) a sinistra

La decisione dei secessionisti dal Pd di chiamarsi oltre che «democratici» anche «progressisti» non sembra segnare davvero alcuna rottura. Fino a prova contraria, infatti, lo stesso Pd è sempre stato e tuttora è «progressista»; così come «progressista» si considera l’intera Sinistra di qualsiasi genere. È proprio una tale unanimità che però dà da pensare e induce a porsi una domanda: non sarà forse proprio questa indefettibile adesione «progressista», che da tanto tempo caratterizza la Sinistra, una delle ragioni di fondo del suo declino, della perdita di consenso che dovunque l’ha colpita da tempo?

Che cosa vuole dire infatti, oggi, essere e dirsi «progressisti»? Quali contenuti trasmette politicamente? Non potrebbe essere magari che proprio di questi tempi e su non poche questioni, per essere fedele al suo vantato spirito critico e in certo senso anche alla sua tradizione, la Sinistra dovrebbe essere invece che «progressista» «regressista»? Detto altrimenti: quali sono i caratteri di un fatto o di un fenomeno che oggi possono farlo considerare realmente un «progresso»? Forse la Sinistra dovrebbe chiederselo con un po’ più di attenzione di quanto abbia fatto negli ultimi decenni: in caso contrario è la sua stessa identità, mi pare, che rischia di perdersi in un mare di contraddizioni e di equivoci.

Cito così come mi vengono alla mente alcuni tra i casi più emblematici in cui la Sinistra si è schierata dalla parte del nuovo o l’ha accettato senza discutere. Cioè senza scorgere in esso alcun significato radicale, alcun «problema dell’epoca», per così dire, che interpellasse i propri valori fondativi. Penso al dilagare di Facebook, Instagram, WhatsApp, Twitter et similia, con il conseguente effetto che essi producono sulla formazione della personalità, sul nostro tessuto sociale e quindi sul meccanismo del consenso politico. Penso al calo demografico che domina le società europee; alla prevalenza a cui ci stiamo avviando delle famiglie monoparentali e delle convivenze rispetto ai matrimoni; alla crescita esponenziale del turismo; alla caduta presso grandi masse di ogni barriera culturale nei confronti dell’assunzione di sostanze stupefacenti di ogni tipo.

E mi chiedo: i fenomeni appena citati sono forse neutri? O forse alludono addirittura, in qualche modo, a un «progresso», come spesso ci è stato assicurato? Ma se sì, in che senso? Qual è il significato del «progresso» che essi rappresentano? Casi di vantate conquiste progressiste non mancano anche restando dalle nostre parti. Hanno costituito realmente un progresso, per esempio, l’esistenza delle Regioni o l’autonomia assegnata ai singoli istituti scolastici (con il conseguente obbligo di competere tra di loro per mantenere o accrescere il numero dei propri iscritti)? O per dirne un’altra, che cosa ha da dire il punto di vista «progressista», tuttora caro alla Sinistra, rispetto all’inedita condizione di angosciosa insicurezza in cui ormai vivono milioni di nostri concittadini nelle periferie urbane o nelle aree alle porte di tanti paesi? Qual è in questo caso la soluzione «progressista»?

La verità è che da anni l’idea di progresso si va così caricando di ambiguità e di incertezza che ormai lo stesso termine è quasi sul punto di uscire dal linguaggio comune. Quanto alla capacità di quell’idea di connotare realmente una forza politica di sinistra, dovrebbe dar da pensare, credo, la circostanza che da tempo pressoché l’intera gamma di ciò che nelle nostre società si è affermato in nome del «progresso», in nome della necessità di «aggiornarsi», di «stare al passo coi tempi», anche di essere «più liberi», lo ha fatto in sostanza all’unanimità. Cioè non solo senza nessuna particolare opposizione ideologica — se non quella in sostanza residuale di strutture come la Chiesa cattolica, escluse dal mainstream del pensiero maggioritario — ma addirittura con l’avallo (spesso esplicito) proprio di quelle forze del denaro e del potere che alla Sinistra, in teoria, avrebbero dovuto essere estranee se non avverse.

Il fatto è che la Sinistra è nata ed è vissuta assai a lungo credendo che il cammino della Storia fosse caratterizzato di per sé, seppure tra le strettoie del capitalismo, da un elemento di Progresso (che voleva dire rischiaramento delle menti, avanzata della ragione e della civiltà, affermazione della libertà). E che proprio perciò prima o poi una tale Storia all’insegna del Progresso si sarebbe conclusa con la vittoria della Sinistra stessa, sua rappresentante per antonomasia. Ogni novità — tecnologica, di costume, di mentalità — s’inseriva in questo corso provvidenziale: da qui la sua tendenza a stare comunque dalla parte del nuovo. Specialmente se tale novità non riguardava l’ambito della fabbrica dove c’era sempre il sospetto che essa, invece, facesse gli interessi del «padrone». Ma escluso questo caso, in generale la Sinistra era convinta di non potere che essere comunque a favore di tutto ciò che sapesse di rottura, di ampliamento della sfera individuale così come di aumento dell’autodeterminazione collettiva, di non potere che favorire la «democratizzazione» di qualunque istituzione. La Sinistra, insomma, non poteva che cavalcare comunque l’onda dei tempi.

Solo che a un certo punto i tempi sono sembrati smentire tutte le previsioni, e la Storia ha deviato dal suo corso. Il capitalismo ha cominciato a funzionare con un numero sempre minore di operai, i «padroni» sono diventati democratici, le vecchie idee sono state mandate in soffitta senza problemi, il ceto medio da conservatore che era si è mutato in «riflessivo», e il Progresso non ha incontrato più ostacoli. Ha preso il comando e ha cominciato a dettare legge. Peccato che la Sinistra però non riesca ad accorgersene: convinta addirittura di intimorire qualcuno, essa pensa ancora di dirsi «progressista». Proprio mentre contro il Progresso si ode dappertutto, sempre più vicino e crescente, il rumore di confuse, paurose, rivolte.

CORRIERE.IT

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