La doppia lezione olandese
Il partito liberale del premier Mark Rutte ha perso 8 seggi e quindi ha vinto le elezioni. Il PVV del leader populista Geert Wilders ne ha guadagnati 5 e dunque ha perso la partita. C’è un che di italiano nella lettura del risultato elettorale in Olanda: con la sola eccezione dei laburisti, affondati a un livello di testimonianza, un po’ tutti cantano vittoria. È stata premiata la «leadership responsabile» di Rutte, che potrà di nuovo guidare una coalizione di governo? O ha ragione Wilders, quando dice che hanno vinto i suoi temi, anche se non sarà lui il prossimo primo ministro? E soprattutto, è stata veramente frenata l’ondata populista, che minaccia l’Europa e in Olanda ha trovato il suo primo frangiflutti?
Ci sono pochi dubbi che il leader liberale olandese abbia ottenuto un importante successo politico e che la prospettiva di averlo ancora a capo del governo dell’Aja sia ossigeno puro per l’Unione europea e un buon viatico per gli altri appuntamenti (la «semifinale» francese e la «finale» tedesca, nel linguaggio da Champions League di Rutte) che da qui a settembre definiranno il futuro dell’Europa. Ma pochi dubbi esistono anche sul fatto che la vittoria di Rutte contenga una novità importante. Il premier ha vinto infatti prendendo di petto i temi agitati da Wilders, immigrazione e integrazione, scegliendo di impostare una campagna pro-europea, ma anche fortemente identitaria e patriottica.Valga per tutte la lettera, pubblicata a tutta pagina sui giornali olandesi, dove Rutte criticava quegli immigrati, ed era chiaro si trattasse dei musulmani, che rifiutano di integrarsi nella società: «Comportatevi normalmente o andatevene». Nel solco dello stesso canovaccio si è mosso il leader di centro destra, Sybrand Buma, che ha anche proposto di rendere obbligatorio il canto dell’inno nazionale olandese nelle scuole elementari e medie: il suo partito, il Cda, ha guadagnato 6 seggi, piazzandosi al terzo posto in assoluto.
E sicuramente ha aiutato Rutte anche la scelta (condivisa da Wilders) di vietare ai visir del governo di Ankara di far propaganda fra le comunità turche in Olanda a favore del progetto di riforma costituzionale, che andrà a referendum in Turchia il 16 aprile prossimo. Forse ha fatto un favore a Erdogan, il cui ministro degli Esteri ieri ha dato del fascista a tutti profetizzando guerre di religione in Europa, ma ha tenuto il punto di principio. Detto altrimenti, Rutte non ha avuto paura di provare a dare risposte alle ansie e alle preoccupazioni di molti olandesi, anche esponendosi all’accusa di blandire Wilders: «Gli elettori hanno detto no al tipo sbagliato di populismo», è stato il suo commento più significativo. Ma in nessun momento il premier liberale ha ceduto ai toni xenofobi, all’incitazione all’odio e soprattutto ha mai rinunciato all’impegno e alla tradizione europeista dell’Olanda.
Che restano e sono forti, come dimostra il successo elettorale di due forze progressiste filo-europee, i liberali di D66 e la sinistra verde di Groen Links, che guadagnano rispettivamente 7 e addirittura 10 seggi, diventando il quarto e il sesto partito. Come già successo in Austria, con Alexander Van der Bellen, sono queste due moderne espressioni della sinistra, ecologista, radicale, antiautoritaria e liberale, a fare il pieno dei voti progressisti delusi da laburisti e socialisti, il cui tracollo conferma le criticità della sinistra tradizionale in Europa.
Non sarà facile formare un governo in Olanda. In un Paese nel quale, come recita l’adagio, «bastano due olandesi per fare una Chiesa e tre per fare uno scisma», ci sono ora 13 partiti in Parlamento, compreso quello anti-razzista, Denk, fondato da due turco-olandesi. Mark Rutte ha davanti scelte difficili e complicate. La sua combinazione originale di populismo moderato e non estremo con un europeismo forte, indica tuttavia una strada nuova e possibile. Geert Wilders è lì per restare e la sfiducia verso le élite non si è dissolta nelle urne olandesi. Ma da ieri in Europa si gioca una partita nuova.
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