L’illusione dell’Europa a velocità diverse

La maggioranza dell’opinione pubblica del nostro continente non vuole salti nel buio. Non ama affatto l’Unione Europea com’è oggi ma non è disposta a correre il rischio dell’uscita dall’euro o della rinuncia/cancellazione del progetto comunitario. È questo, mi sembra, il messaggio delle elezioni di mercoledì in Olanda: non già «una diga contro i populisti», come ha scritto qualcuno, ma un estremo atto di fiducia concesso dai cittadini europei alle proprie classi politiche perché cambino le molte cose che ci sono da cambiare nell’edificio di Bruxelles. Elezioni, tra l’altro, che probabilmente avrebbero avuto un esito diverso se non ci avesse pensato l’arroganza del presidente turco Erdogan a servire su un piatto d’argento al premier olandese Rutte l’occasione di presentarsi in extremis come il campione dell’indipendenza e dell’identità nazionali.

Ma proprio rispetto a questo estremo atto di fiducia in una possibile svolta dell’Ue appare assolutamente deludente la risposta appena data da un gruppo di Paesi dell’Unione Europea membri da più lunga data (in sostanza per ora i sei originari, inclusi dunque Italia, Francia, Spagna e Germania) di dare vita ad un’Europa «a più velocità». Che di fatto sembra segnare più che un rimedio alla crisi europea l’inizio della fine del sogno europeista.

 Innanzi tutto per una ragione ovvia: perché quella decisione significa l’ammissione di una sconfitta non da poco.

La sconfitta della politica di allargamento da 15 a 27 membri, perlopiù dell’Europa centro-orientale, che si realizzò dal 2004 al 2007. L’allargamento, fortissimamente voluto da Romano Prodi — desideroso di concludere con un successo d’immagine la sua presidenza della Commissione dell’Unione, tutt’altro che esente da critiche — e altresì molto benvisto dalla Germania per rafforzare il proprio ruolo di dominus dell’Unione grazie alla tradizionale egemonia tedesca in quello spazio del continente, fa segnare dopo dieci anni un bilancio in passivo. Ha contribuito a complicare i rapporti con la Russia, non ha scalfito in misura apprezzabile il duro fondo nazionalistico delle culture politiche balcaniche né i molti aspetti illiberali delle loro istituzioni, ha rappresentato un costante ostacolo alla possibile adozione a Bruxelles di linee d’azione comune. In generale, nella vita dell’Unione l’allargamento ha corrisposto non già ad un indebolimento bensì ad un rafforzamento del punto di vista nazionale, dal momento che quasi sempre i Paesi dell’Europa centro-orientale si sono mostrati assai più inclini a sfruttare i vantaggi dell’appartenenza europea che a dividerne gli obblighi e i pesi. Senza contare il noto effetto negativo di quell’allargamento: il timore diffusosi nelle opinioni pubbliche dei Paesi più sviluppati dell’Ue per le forme di una possibile anche se spesso immaginaria «concorrenza sleale» da parte dei nuovi arrivati (il mito del famigerato «idraulico polacco»), e il conseguente calo di consensi che ne è venuto all’Unione nel suo complesso.

L’allargamento, insomma, è stato l’esempio forse più significativo della superficialità con cui le classi dirigenti europee hanno fin qui gestito la costruzione europea. Ma — ciò che più conta — è stato anche la prova che il concreto progetto europeista, «l’europeismo reale», se così si può dire, inaugurato sessanta anni fa e interamente fondato su un elemento trainante di tipo economico, non è in grado di superare le profonde divisioni che la storia ha creato nel continente tra la sua parte occidentale e quella orientale. Semmai anzi le accentua (vedi il caso della Grecia). La formula dell’«Europa a più velocità» è la presa d’atto di questo fallimento (non confessato: secondo la prassi di tutti i gruppi dirigenti inadeguati al loro compito, i quali credono di esorcizzare con il silenzio le realtà scomode). Che ne sia anche una plausibile via d’uscita è però tutto da vedere.

Specialmente per tre motivi. Il primo, del tutto evidente, è che la proposta introduce in un progetto che voleva essere di unificazione, il principio opposto della divisione. Ideologicamente e simbolicamente è un colpo durissimo. Sarà difficile togliere dalla mente dei Paesi diciamo così «a minore velocità» l’impressione di essere per ciò stesso i parenti poveri della compagnia sottoposti a un direttorio di fatto. Tanto più — ed è il secondo motivo — che la proposta, a riprova del suo carattere sostanzialmente improvvisato, non è stata accompagnata da alcun suggerimento circa l’architettura istituzionale a cui essa dovrebbe accompagnarsi. Le ipotesi sul tavolo non mancano ma su questo argomento a livello ufficiale regna finora il silenzio. Il problema cruciale è sempre quello: come prenderanno le decisioni comuni i «Paesi guida», chiamiamoli così, dell’Unione? E tali decisioni quali ambiti riguarderanno? Con quali vincoli e obblighi reciproci (penso in particolare alla distribuzione delle risorse) e con quali condizionamenti per i Paesi a minore velocità? D’altra parte i «Paesi guida» da soli non hanno certo il potere di modificare in nulla le attuali attribuzioni e competenze degli organi della Ue a 25 (Commissione, Consiglio, Parlamento): e allora? Rimarrà la vecchia architettura alla quale se ne aggiungerà una nuova? Secondo quali modalità?

Resta infine tutto da vedere — terzo motivo di grave perplessità diciamo così tutta nostra — che si tratti di una via d’uscita corrispondente agli interessi dell’Italia: quegli interessi nazionali che l’europeismo trionfante ha a lungo creduto di esorcizzare con l’arma di un sussiegoso disprezzo, salvo doverne poi subire il rude contraccolpo quando negli ultimi tempi è cominciato a prevalere presso l’opinione pubblica un punto di vista ben diverso. Ormai l’empito egemonico della Germania è un dato scontato, così come la dura spregiudicatezza del suo governo, il quale a parole si proclama sempre europeista a 18 carati salvo perseguire in realtà solo e sempre gli interessi esclusivamente del proprio Paese, e tener presente solo e sempre i desiderata dell’elettorato tedesco. Ebbene: siamo davvero sicuri che il potere di Berlino non esca ancora più rafforzato dalla nuova configurazione dell’Europa a due velocità? Siamo sicuri che il minor numero degli interlocutori non finirà per rendere ancor più difficile di quanto sia stato fino ad oggi arginare le ambizioni tedesche? Su quali garanzie in proposito l’Italia pensa di poter contare?

Sono domande che unite alle precedenti forse meriterebbero prima o poi qualche risposta.

CORRIERE.IT

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