I tre indizi per una correzione delle Borse (e i tre motivi che la frenano)
davvero un risveglio brusco quello dei mercati azionari europei di questa mattina. Dopo che ieri Wall Street ha subito la peggior battuta d’arresto da quando Donald Trump ha assunto il potere tocca oggi ai listini del Vecchio Continente difendersi dalle vendite, che colpiscono in primo luogo i titoli finanziari, cioè i principali protagonisti del recente rally. Di contro sono scattate le ricoperture sui titoli di Stato a ribaltare quindi le tendenze degli ultimi mesi. I attesa che da New York arrivino oggi conferme o smentite in merito vale la pena chiedersi se sia dunque arrivata quell’inversione che tutti temono e che potrebbe mettere fine a quello che popolarmente è stato definito da alcuni Trump trade e da altri invece reflation trade.
La luna di miele fra Trump e i mercati è davvero finita?
Gli indizi a carico di questa tesi sono numerosi, come si conviene del resto quando la direzione del mercato resta univoca per un lasso di tempo abbastanza lungo. Proviamo qui a isolarne almeno 3, partendo proprio dalla scommessa che il mercato ha giocato sul carattere espansivo delle politiche promesse dal nuovo inquilino della Casa Bianca. L’apertura di credito è stata tanto totale quanto forse inaspettata, ed è normale che al minimo intoppo ci possa essere una marcia indietro dei mercati brusca come repentina è stata l’ascesa.
ILSOLE24OREChe il campanello di allarme sia giunto quando si è avuto sentore dei primi dissidi fra Trump e il Congresso Usa in merito all’approvazione della riforma della Obamacare è soltanto un dettaglio. In palio c’è infatti molto di più, visto che in un clima del genere le stesse promesse in tema fiscale del neo presidente (ovvero quello che interessa al mercato) rischiano di restare sulla carta o quantomeno non saranno facili da mantenere in tempi brevi.
Le valutazioni di mercato sono a livelli visti soltanto nel 2007
Collegato alla possibile Trump-delusione è il tema delle valutazioni raggiunte dalle società quotate in Borsa o che hanno emesso prestiti obbligazionari, che sono ovviamente storicamente elevate dato che i listini viaggiano sui massimi. Gli analisti dell’istituto di ricerca indipendente Capital Economics fanno notare che sia lo Shiller price/earning per l’S&P 500 (cioè il rapporto fra il prezzo di Borsa di una società e gli utili che produce, corretto per gli effetti del ciclo economico) non si trovava su livelli così elevati da 10 anni e lo stesso ragionamento vale per le obbligazioni ad alto rendimento (high-yield) emesse da società Usa, il cui spread (cioè la differenza di tasso rispetto a titoli non rischiosi) viaggia ai minimi dal 2007.
L’aggressività della Fed
Tutti ricordano cosa è successo poi in quel periodo, con la crisi finanziaria scatenata dai mutui subprime e culminata un anno dopo con il fallimento di Lehman Brothers. Per fortuna però la storia non si ripete in automatico: a volte è necessaria una scintilla per innescare un processo del genere, che per esempio potrebbe essere rappresentata dalle politiche monetarie delle Banche centrali. «Ci aspettiamo che nei prossimi due anni la Federal Reserve possa aumentare i tassi Usa in misura maggiore di quanto al momento i mercati stanno anticipando», spiega Oliver Jones di Capital Economics, avvertendo che «tutto ciò potrebbe pesare sulle attività a rischio e far tornare di attualità l’investimento in titoli di Stato Usa».
La liquidità che sostiene i mercati
Qualche obiezione su questo terzo indizio per una correzione potrebbe però essere sollevata, perché in fondo l’atteggiamento delle Banche centrali resta ultra-espansivo (a differenza di quanto era avvenuto nel 2007) e la liquidità, cioè la «benzina» per i mercati è ancora ingente. Contrariamente a quanto si possa pensare, la Fed stessa non ha infatti ancora iniziato a ridurre le dimensioni del proprio bilancio, che resta oltre i 4.500 miliardi di dollari perché nel frattempo si continua a reinvestire i proventi derivanti dai titoli in scadenza acquistati con il quantitative easing degli anni scorsi . Sul tema della riduzione degli asset della banca centrale Usa si è discusso, come ha ammesso la scorsa settimana il presidente Janet Yellen, ma ancora non è stata presa una decisione. Senza contare poi che in altre parti del mondo (Eurozona e Giappone, per esempio) l’espansione è ancora pienamente in atto.
Quale recessione?
C’è poi il tema della crescita economica da considerare: nel 2007, e ancor più nel 2008, i rovesci di mercato coincisero con una recessione profonda degli Stati Uniti e a livello globale. Oggi la tendenza appare invece ben diversa e si assiste invece a segnali di ripresa diffusa, tanto nei cicli economici più maturi (quello Usa per esempio) quanto in quelli più indietro (l’Europa e il Giappone). «Le maggiori e più profonde correzioni nelle valutazioni di Borsa sono storicamente avvenute nei periodi immediatamente precedenti o durante le recessioni, ma non è certo questo che prevediamo per i prossimi due anni», ammette Jones.
Le valutazioni secondo Barclays
A questo proposito gli analisti di Barclays Research hanno ieri rivisto alcuni obiettivi sulla redditività delle società quotate sull’S&P 500 per l’anno in corso, in modo da riflettere un’espansione delle vendite e anche degli stessi margini, che a loro volta sono aiutati dalla crescita Usa. Alla luce di tutto questo, secondo la banca d’affari britannica, le valutazioni attuali non sarebbero poi così fuori dal seminato, anche perché si può sempre contare sull’impatto dei flussi in entrata sui fondi azionari che investono a Wall Street. Questo sono infatti sì sostenuti (100 miliardi di dollari dall’elezione di Trump), ma raggiungono ancora a malapena un terzo dei disinvestimenti effettuati nel biennio precedente.
I tre scenari sulla «Trumponomics»
Barclays aggiunge però anche tre scenari interessanti, legati al fatto che gli interventi promessi dalla casa Bianca siano effettivamente portati a termine in tempi brevi o meno. L’ipotesi di base, senza considerare alcun impatto fiscale, prevederebbe un obiettivo a 2.450 punti per l’S&P 500 a fine anno (il 4% rispetto ai 2.344 della chiusura di ieri), ma ci sono ottime possibilità (il 50% secondo Barclays) di raggiungere anche quota 2.750 (+17%) nel caso in cui Trump portasse a casa un taglio delle tasse sia per le imprese, sia per i privati e non riuscisse invece ad andare in porto con i dazi doganali (nel complesso negativi per le aziende Usa, per via dei loro effetti sul dollaro e a caduta sull’export).
Il livello del listino principale di New York potrebbe secondo Barclays rimanere invece attorno ai valori attuali (2.350 punti) nel caso in cui venisse approvata la riforma fiscale in toto e si procedesse pure con la border tax (30% di probabilità), mentre senza gli interventi in materia di detassazione che ormai il mercato si aspetta (20% di probabilità) si rischierebbe una discesa di circa il 7% rispetto ai valori di chiusura di ieri proprio per il venir meno di quell’ottimismo che ha permeato i mercati dall’elezione di Trump. Ed è proprio su quest’ultimo scenario che ieri il mercato si stava interrogando con un certo timore: un’ipotesi plausibile, ma tutt’altro che certa.
ILSOLE24ORE