Westminster, il simbolo della democrazia
Chi non ha ancora visto Westminster? Chi non ha ancora visto la maschera di Guy Fawkes? Londra e il terrore, il palazzo del Parlamento e il simbolo della congiura diventato l’icona dell’anarchia, una bautta bianca di cera e carta, le gote rosse, i baffi a manubrio, un leggero pizzetto e il ghigno, ambiguo, di beffa, che copre i volti di manifestanti, ribelli, rivoluzionari, è l’Anonymus, era l’identikit di Fawkes.
Westminster è uno dei cento luna park storici che Londra offre ai turisti, è la casa del governo, Camera dei comuni e dei lord, è la didascalia di un Paese, accanto al Tamigi, la torre di Elisabetta e il Big Ben (Benjamin, ogni orologio porta il nome di chi lo fabbricò, incidendo il proprio nome). L’attentatore di ieri pomeriggio nemmeno conosce la storia di Guy Fawkes che, molto prima di lui, era il milleseicento e cinque, con altri congiurati, tentò di uccidere re Giacomo I e tutti gli altri membri della camera dei Lord. Non avevano un Suv e nemmeno fucili mitragliatori, caricarono sui carri, trainati da cavalli, trentasei barili di polvere da sparo, volevano far saltare in aria il regno e i regnanti, bastava accendere la miccia e il colpo sarebbe stato perfetto.
Ma il complotto venne scoperto in tempo dalla polizia, uno dei Lord convocati ricevette una lettera nella quale lo si invitava a restare nella propria dimora, fu il segnale, la polvere finì nelle acque del Tamigi e il re si salvò, come cantano con una filastrocca, ogni 5 di novembre, i bambini che raccolgono monete in memoria dell’evento.
L’Inghilterra resiste a se stessa, conta i morti del terrorismo nella metropolitana, lungo le strade. Si ritorna ai giorni bui dell’Ira, al diciassette di giugno del 1974, quando la Provisional Ira fece esplodere una bomba di nove chilogrammi nella Westminster Hall, il terrore si era avvicinato ai luoghi sacri, non Buckingham ma il palazzo del Parlamento, là dove già a metà dell’Ottocento un primo ministro fu ucciso. Per l’Ira, quella bomba, fu quasi una forma di rispetto per il simbolo del regno e, invece, la sfida aperta alle istituzione governative.
Il limite è stato varcato, la barriera travolta, come la vita delle persone che stavano camminando lungo il ponte, osservando la Torre di Elisabetta, immaginando la storia di re e regine, corone e carrozze.
Scenario gotico, come l’architettura degli edifici intorno, terrificante, fantastico e misterioso anche, macabro, i morti, i feriti, il senso di sbigottimento. Westminster entra a far parte degli obiettivi non soltanto sensibili ma ormai messi a fuoco, il suo fascino antico deve fare i conti con una cronaca maligna, non più il pennello di Claude Monet a immortalarne la magia, con i colori dolci, ma le telecamere fredde che inquadrano figure, ombre, sagome pericolose. Mille e cento stanze diventano una sola, corridoi eterni, scalinate deserte. Notte lunghissima.
L’Inghilterra non vive più sull’isola ma è continente di paura, Westminster ha saputo risorgere dopo l’incendio che la bruciò nell’Ottocento ma adesso comprende che il tempo prevede altre fiamme improvvise. Niente è sicuro, nulla è protetto anche se, per l’Unesco, l’abbazia è patrimonio dell’umanità. Il Big Ben suona le ore di sempre. Sembra una campana a morto.
IL GIORNALE