Trattati di Roma, l’accordo Ue è al ribasso. “Avanti con ritmi diversi”
Roma, 26 marzo 2017 – Per dirla con Orazio, autore consono alla maestosità romana del Campidoglio, “le montagne partoriranno e nascerà un ridicolo topolino”. La montagna delle incerte istituzioni europee di questo inizio secolo, già venata dai populismi e colpita dalla slavina Brexit, ha prodotto il proverbiale roditore: “Agiremo congiuntamente, con ritmi e intensità diverse se necessario, ma sempre procedendo nella stessa direzione”.
FOTO Celebrazioni per i 60 anni dei Trattati di Roma
Questo è il passo chiave della dichiarazione dei 27 che sigilla il vertice che celebra il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma e che quasi sottovoce afferma la semplice verità che – come peraltro già oggi previsto dai trattati – l’Unione tenterà di scrollarsi dall’abbraccio mortale degli opposti veti usando la via delle cooperazioni rafforzate. O almeno così intendono fare l’asse Berlino-Parigi con il placet di Roma, Amsterdam, Vienna e altri paesi del Nord Europa. “I 27 – dirà Angela Merkel poco prima del vertice – dovranno proseguire il percorso comune nella stessa direzione, ma forse con diverse velocità”.
FOTOGALLERY Unione Europea, i cortei pro e contro
“Oggi l’Unione Europea sceglie di ripartire e ha un orizzonte di dieci anni per farlo: dobbiamo garantire crescita, investimenti, difesa comune, politiche migratorie comuni”, e per farlo “è necessario puntare sulla cooperazione rafforzata, ove possibile” dirà nel suo intervento il premier Paolo Gentiloni. Ma nel fragile equilibrio di una dichiarazione ben meno ambiziosa di quella di Berlino, l’Europa a due velocità è duramente contrastata dalla Polonia e non solo, specialmente nell’Est. “Quando c’era la cortina di ferro – dirà il polacco Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo – c’era una Europa a due velocità, ma noi vogliamo una alleanza di nazioni libere e perseguire l’obiettivo dell’unità, non delle due velocità. L’Europa dovrà essere unita, o non sarà affatto”.
La diversità di strategia, oltre che di toni è evidente, anche nel giorno del romano volemose bene. L’Italia cerca, come è normale che sia come paese ospitante e di antico e ancora attuale europeismo, di vedere il bicchiere mezzo pieno in quella dichiarazione che promette “una Europa sicura in cui le frontiere siano protette con una politica migratoria efficace nel rispetto delle norme internazionali” (ma niente “impegno a combattere l’immigrazione illegale” preso a Berlino 10 anni fa, ndr), “una Europa sostenibile che generi crescita e occupazione e che si adoperi” (senza impegno alcuno, per carità, ndr) per il completamento dell’Unione economica e monetaria, “in cui l’energia (quale? ndr) sia sicura e conveniente e l’ambiente pulito e protetto”.
“Una Europa sociale, che favorisca il progresso economico e sociale”, “una Europa più forte sulla scena mondiale, pronta ad assumersi maggiori responsabilità, impegnata a rafforzare la propria sicurezza e difesa comuni, anche in cooperazione e coordinamento con la Nato” che “promuova un commercio libero ed equo e una politica climatica globale positiva” (che non significa nulla ed è ben meno di quanto scritto a Berlino, ndr). Servirebbe ben di più.
Ricevendo i 27 leader al Quirinale, il presidente Mattarella generosamente definirà la dichiarazione “impegnativa” e auspicherà un percorso che faccia compiere all’Unione “quel salto di qualità di cui tutti oggi avvertiamo estremo bisogno perché senza la prospettiva di passi in avanti crescenti rischiamo una paralisi fatale”. “Oggi inizia una fase costituente“, ha detto Mattarella e il presidente della Commissione Juncker ha promesso un rinnovato impegno. È quello che caldamente si augurano gli europeisti, mentre populisti, sovranisti e antagonisti vari attendono con fiducia, seduti lungo il fiume, che l’Europa sia trascinata dalla corrente e venga il loro turno. Sessanta anni dopo, non è una gran prospettiva.
Jean Claude Juncker con le dita macchiate d’inchiostro (ImagoE)
QN.NET