L’insensata uscita dalla moneta unica
Il Movimento 5 Stelle ha più volte annunciato un referendum consultivo per l’uscita dall’euro, un passo che inevitabilmente comporterebbe l’uscita dall’Unione europea. Infatti, a meno di rinegoziare all’unanimità i trattati, non è possibile abbandonare la moneta unica rimanendo nella Ue. E fuori da essa un’eventuale svalutazione decisa per guadagnare competitività sarebbe neutralizzata dai dazi che gli altri Paesi imporrebbero sulle nostre esportazioni. Con dazi e svalutazioni gli italiani dovrebbero ridurre, e di molto, i loro consumi di beni importati. Certo, i dazi non durerebbero per sempre, forse sarebbero solo una minaccia. Ma neppure gli effetti dalla svalutazione durerebbero per sempre. Per un po’ di tempo, forse un anno o due, il minor valore della moneta potrebbe aiutare le nostre esportazioni. Ma un Paese in cui la produttività non cresce da un decennio, che soffre per il nanismo delle sue imprese, poca ricerca e sviluppo, di poca concorrenza, regole asfissianti su molte attività economiche, un’imposizione fiscale soffocante a causa di una spesa pubblica troppo elevata, non può illudersi che basti una svalutazione per risolvere questi problemi e riprendere a crescere. Come accadeva prima dell’euro, la mossa avrebbe l’effetto dell’aspirina: cura i sintomi, e intanto ritarda l’adozione di misure efficaci per combattere la malattia. Silvio Berlusconi propone invece di mantenere l’euro, ma affiancandogli una «nuova lira»: sarebbe emessa dallo Stato che la userebbe per pagare dipendenti e fornitori, i quali poi potrebbero usarla per saldare le loro tasse.
Alla fine degli anni Novanta lo fece l’Argentina: circolava il peso, legato uno a uno al dollaro, e i patacones, emessi dai governi provinciali per finanziarsi. Finì in un’esplosione del debito pubblico, una grande svalutazione del peso, l’assalto alle banche per ritirare i depositi e un default. Nonostante lo straordinario aumento di competitività delle merci argentine, il Paese entrò in depressione e la disoccupazione salì al 25 per cento.
A questo proposito circola uno studio (prodotto da Mediobanca) secondo il quale ripagare il nostro debito, almeno quello emesso prima del 2013, non più in euro ma con le nuove lire, non sarebbe un default e consentirebbe allo Stato di ridurre, e di molto, il debito pubblico. Ci pare difficile che le agenzie di rating non definiscano questo evento un default, e comunque si aprirebbe un lungo contenzioso legale. Lo si chiami come si vuole, il costo dei finanziamenti delle imprese, oltre che dello Stato, schizzerebbe verso l’alto. E un eventuale riduzione nel valore del debito pubblico potrebbe avvenire solo se lo Stato, quando rimborsa i Btp in lire anziché in euro, lo facesse non al tasso di cambio di mercato, ma ad un tasso penalizzante per i risparmiatori. Insomma, una tassa occulta: non una buona idea.
Quando l’euro fu introdotto vi erano molte incertezze, argomenti pro e contro. Anche coloro che ritenevano i benefici molto superiori ai costi si sono resi conto che nel 2002 il passaggio alla moneta unica è stato mal gestito dal governo del tempo: in particolare non impedendo uno straordinario aumento dei prezzi nei settori meno concorrenziali della nostra economia, a cominciare dalle accise. E dopo l’Europa si è dimenticata che per fare un’unione monetaria non basta una moneta unica: serve un’unione bancaria e qualche passo verso un’unione fiscale. Si è sperato che la moneta unica si sostenesse da sola, magicamente. Poi è arrivata la crisi finanziaria e tutto è diventato molto più difficile.
Oggi non è più il tempo di discussioni accademiche sui pro e contro dell’euro. Un dibattito europeo su come riorganizzarne, anche radicalmente, la gestione andrà avviato, e presto. Ma il nodo della campagna elettorale che si è aperta non è questo. La questione sarà: vogliamo che l’Italia esca subito e unilateralmente dall’unione monetaria e in prospettiva dall’Ue divenendo un paria dell’Europa?
Come può il governo Gentiloni rispondere alla crescita di popolarità dei movimenti anti-euro? Rincorrerli sulla strada del populismo — una tentazione in cui talvolta anche Matteo Renzi cade — è una causa persa perché è il loro terreno vincente. Abolire i voucher per fare felice Susanna Camusso e così evitare il referendum è stato un esempio di rincorsa sul terreno sbagliato. Siamo davvero sicuri che i cittadini avrebbero votato per abolirli?
Spesso i governi in difficoltà non fanno nulla prima delle elezioni per non correre rischi: una strategia che può avere un suo senso. A noi però pare che in questo momento non fare nulla significhi regalare l’Italia al Movimento 5 Stelle che potrebbe portare il Paese nel baratro di cui sopra. Questo governo non può permettersi il lusso di non far nulla.
La decisione (finalmente, bravo Gentiloni!) di mettere il voto di fiducia sulla legge per la concorrenza va nella giusta direzione. Ora non bisogna cedere a chi sostiene che il solo modo per correggere i conti è aumentando le imposte. Ci abbiamo già provato, l’economia è crollata e il debito ha continuato a crescere. Occorre invece riavviare le privatizzazioni (ed evitare di mettere, direttamente o con pre-pensionamenti a carico dei contribuenti, altri soldi in Alitalia). Guardiamo poi alle aziende pubbliche locali. Una legge lunga una riga che impedisse alle aziende di cui il Comune è azionista di partecipare alle gare per l’assegnazione di servizi pubblici avrebbe un effetto istantaneo. A Milano il Comune venderebbe la maggioranza di Atm, un’ottima azienda: ma davvero qualcuno pensa che è meglio tenere risorse bloccate nelle azioni di Atm che impiegarle per migliorare le scuole della periferia milanese?
CORRIERE.IT
This entry was posted on martedì, Marzo 28th, 2017 at 14:46 and is filed under Editoriali - Opinioni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.