Morto Giovanni Sartori Politologo fuori dagli schemi

(Monaldo/LaPresse)

Fra i numerosi talenti del politologo Giovanni Sartori, scomparso all’età di 92 anni, spiccava la capacità di coniugare eccellenza scientifica ed efficacia comunicativa. Aveva insegnato nelle più prestigiose università americane e i suoi libri erano tradotti in tutto il mondo: a lui si deve tra l’altro la più convincente descrizione teorica del sistema politico italiano. Ma era anche un editorialista e un polemista estroso e brillante come pochi, sorretto in questo anche da un sulfureo spiritaccio toscano: aveva inventato i termini Mattarellum e Porcellum, entrati nell’uso comune per designare le leggi elettorali succedutesi in Italia dopo la svolta d’inizio anni Novanta, e per il fenomeno del berlusconismo aveva coniato la definizione forse un po’ calcata, ma indubbiamente suggestiva, di «sultanato». Impartiva ai leader di partito e di governo severe lezioni di politologia e diritto costituzionale, ma amava trattare in modo brioso e tagliente, nei suoi libri e sulle colonne del «Corriere», anche altri temi: multiculturalismo, equilibri ambientali, statuto dell’embrione.

Nato a Firenze il 13 maggio 1924, raccontava di aver letto i maggiori classici della filosofia moderna durante la guerra, nel periodo in cui si era nascosto per sfuggire alla chiamata di leva della repubblica fascista di Salò. Il suo primo incarico universitario, nel 1950, fu appunto in campo filosofico: sei anni dopo cominciò a insegnare Scienza della politica, materia appena inserita nello statuto dell’ateneo fiorentino. Era stato anche preside della facoltà di Scienze politiche Cesare Alfieri, nella sua città, dal 1969 al 1971, negli anni caldi della contestazione studentesca. E nel 1971 aveva fondato la «Rivista italiana di scienza politica», della quale rimase direttore per oltre vent’anni.

Dal 1976 aveva cominciato a insegnare negli Stati Uniti, prima a Stanford e poi alla Columbia University di New York, della quale era professore emerito. Conosciuto e apprezzato a livello internazionale, nel 2005 era stato insignito del premio spagnolo Principe delle Asturie per le Scienze sociali. In particolare sono considerati di straordinaria importanza i suoi lavori sui regimi democratici, a partire dal classico Democrazia e definizioni (il Mulino, 1957), e sui sistemi di partito, come il fondamentale Parties and party systems (Cambridge University Press, 1976). Aveva poi applicato i suoi criteri di analisi alla situazione del nostro Paese in una serie di saggi, raccolti nel volume Teoria dei partiti e caso italiano (SugarCo, 1982).

Riteneva fuorviante dipingere l’antagonismo tra Dc e Pci come un «bipartitismo imperfetto» (cioè senza alternanza), secondo la formula adottata da Giorgio Galli. A suo avviso l’Italia era invece un esempio di «pluralismo polarizzato»: molti partiti, alcuni dei quali antisistema, con un enorme divario ideologico dall’estrema destra all’estrema sinistra e robuste spinte centrifughe. Uno scenario tutt’altro che rassicurante, simile a quelli della Germania di Weimar, della Spagna alla vigilia della guerra civile, della Quarta Repubblica francese. E se l’attenuarsi delle tensioni ideologiche ha scongiurato le prospettive peggiori, non c’è dubbio che l’incapacità del Paese di trovare un assetto stabile conferma la sussistenza dei problemi di fondo rilevati dal politologo fiorentino.

Se si passa dall’elaborazione teorica al giudizio sulle vicende concrete, un tratto peculiare di Sartori era la sua estraneità agli schemi usuali. Era un moderato anticomunista («quando c’erano i comunisti», precisava), ma fermissimo nel denunciare il conflitto d’interessi che rendeva anomala la figura del politico imprenditore Silvio Berlusconi. Nel contempo, in rude polemica con la sinistra, criticava ogni sottovalutazione del problema costituito dall’immigrazione di massa: lontanissimo dalla retorica dell’accoglienza, temeva il multiculturalismo come motore di una deleteria «balcanizzazione» delle società occidentali. E non cessava di porre in rilievo la vocazione teocratica dell’Islam, fino trovarsi in una qualche sintonia con Oriana Fallaci.

Laico ai limiti dell’anticlericalismo, Sartori fustigava energicamente la Chiesa cattolica per la sua posizione sul controllo delle nascite. Lo allarmava la condizione generale del pianeta, soprattutto per via della sovrappopolazione e della penuria d’acqua: anche qui era agli antipodi della destra indifferente ai rischi del mutamento climatico o addirittura propensa a negarli. Peraltro i suoi bersagli appartenevano a tutto lo spettro politico: indicava un sistema elettorale uninominale a doppio turno come la soluzione migliore per riassestare la nostra vita pubblica, ma doveva constatare con amarezza che i suoi suggerimenti restavano inascoltati.

Più in generale Sartori avvertiva evidenti segnali di una regressione culturale, che imputava in gran parte al prevalere della comunicazione visiva su quella scritta. Nel saggio Homo videns (Laterza, 1997) aveva lanciato l’allarme per l’avvento di un nuovo tipo umano, incapace di astrazione concettuale perché abituato a nutrire la propria mente soltanto di immagini. Era forse il più grave dei pericoli che scorgeva all’orizzonte, elencati con una vena profondamente pessimista nel libro La corsa verso il nulla (Mondadori, 2015). Si può ritenere che esagerasse, ma certo le sue apprensioni non erano prive di fondamento. Conviene tenerle presenti.

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