La globalizzazione ora va alla ricerca degli oceani perduti

beniamino pagliaro
inviato a barcellona

Dal ponte numero undici il Mediterraneo sfila a ventisette nodi e appena lasciata la Sardegna l’orizzonte è sgombro. Dal ponte numero undici non si direbbe che in mare ci sono troppe navi e troppa poca merce da trasportare. Ma la realtà è più complicata di una fotografia istantanea e i numeri dicono che la parola più ripetuta nei porti del mondo è overcapacità. Prima del nuovo protezionismo di Donald Trump e dieci anni dopo la crisi finanziaria, il commercio globale pretende qualche consegna in meno dai giganti del mare che trasportano silenziosamente le nostre scarpe da ginnastica e i nostri telefoni scintillanti. La rincorsa arriva da lontano e ora il ritmo rallenta: dopo decenni, nel 2016 l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) ha tagliato le stime di crescita dal 2,8% all’1,7%. L’industria dei trasporti marittimi riflette come un respiro l’interscambio globale. Prima c’è stata la grande corsa: nel 1990 la capacità mondiale di container era di un milione e mezzo di Teu (l’unità che misura i container), negli anni 2010 è salita oltre i 15 milioni. Poi, oggi, ecco la frenata, perché le merci da trasportare non sono più così tante. Nel 2015 la flotta mondiale aveva 1,4 milioni di Teu in eccesso: spazio che gli armatori non riescono a vendere. La quota crescerà fino ad arrivare tra i 2 e i 3,3 milioni nel 2020, secondo Boston Consulting Group. Ogni cento navi cariche ce ne saranno circa dieci vuote.

 

 

Tutti questi numeri sono la premessa di un dinamismo formidabile: domanda e offerta si arrabattano alla ricerca di un nuovo equilibrio e parte la rincorsa all’efficienza. In primis gli armatori hanno iniziato a ordinare navi enormi. Pochi giorni fa, il 27 marzo, è stata consegnata la più grande del mondo, lunga 400 metri, può ospitare 20.150 Teu. «Per anni gli armatori hanno ordinato mega-navi container per ottenere economie di scala e ridurre i costi. In teoria questo garantisce agli armatori un vantaggio sulla concorrenza», spiega da Londra il direttore della ricerca sui container della società di consulenza Drewry, Neil Dekker. Ma nella pratica l’arrivo delle super-navi ha scatenato un effetto collaterale, ampliando ancora l’offerta. Così gli armatori ne hanno provato un’altra, imponendo ai comandanti di viaggiare più lentamente per risparmiare carburante. Poi hanno iniziato a rottamare le vecchie navi: nel 1980 una nave container veniva demolita con 37 anni di onorato servizio, nel 2016 siamo scesi a vent’anni.

 

 

Infine si sono arresi e hanno iniziato a riscrivere alleanze e fusioni. Il leader del mercato, Maersk, ha messo da parte le ambizioni energetiche e si è concentrato solo sui trasporti. L’obiettivo è risollevare un po’ le tariffe: dalla crisi finanziaria il Baltic Dry Index ha misurato un crollo del 93% nei noli. Spedire un container dalla Cina al Brasile nel 2008 costava circa duemila dollari, oggi può costare appena 50 dollari. Eppure sembra tutto inutile, o almeno insufficiente: i numeri dell’Omc non descrivono l’andamento di un ciclo economico o una frenata imprevista, bensì sostanziano una nuova normalità, dove la crescita è più lenta, gli Stati consolidano le posizioni e sono più guardinghi. Il commercio globale frena.

 

Al ponte numero nove, in un giovedì tiepido di fine marzo, gli ospiti della Cruise Barcelona non sembrano preoccupati dai nuovi venti protezionisti. La nave è territorio libero di centinaia di ragazzi: scorrazzano inconsapevoli, richiamati da esasperati animatori via interfono. Gli altri viaggiatori sono i camionisti, perché siamo a bordo di una delle navi Grimaldi che costruiscono le Autostrade del Mare: collegamenti quotidiani, essenziali per il flusso commerciale su tratte brevi. Un concetto semplice, adottato come priorità dalla Commissione europea nel 2001 e sviluppato dal mercato. Via mare i rimorchi dei tir viaggiano più sicuri e non consumano carburante, gli autisti riposano prima di rimettersi al volante. Il trasporto di materiale rotabile vale in Italia più di quello container: 93 milioni di tonnellate rispetto agli 80 dei contenitori, nel 2016. Nell’era dell’overcapacità siamo a bordo di un’eccezione: è un trasporto più sartoriale, più coerente con i (troppi) mini-porti sparsi sulla penisola. Riesce a essere più resiliente e soffre meno la febbre dell’offerta.

 

Da Civitavecchia partono soprattutto i prodotti dell’industria del Sud Italia: le Jeep Renegade arrivate su rotaia da Melfi si ammassano ordinate, pronte a entrare nella pancia della nave. Da Barcellona i tir torneranno carichi di frutta spagnola per i mercati italiani. Prima della partenza, è buio, il comandante di terra deve scegliere quali carichi lasciare in porto: il trasporto rotabile non soffre di overcapacità. «Le Autostrade del Mare crescono in maniera esponenziale – dice il direttore commerciale dello shipping Guido Grimaldi -, sono più flessibili rispetto al container e più sostenibili: l’intermodalità abbatte il 40-60% delle emissioni di Co2».

 

 

Dopo venti ore la Cruise Barcelona attracca in Spagna. Il giorno dopo, la strada per l’aeroporto sfreccia parallela alle enormi pile di container vuoti lasciati a far ruggine sulle banchine. Molti governi (non quello americano) negano volontà protezionistiche ma il commercio globale è più lento anche perché la politica prova a proteggere i campioni nazionali e i posti di lavoro. Volevamo la velocità e la globalizzazione? Nel 2016 il commercio è cresciuto meno dell’economia mondiale. È la prima volta dal 2001 del terrore. È la nuova normalità, lenta.

LA STAMPA

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