Siria, così Trump sceglie il blitz: “È un segnale per il regime”

paolo mastrolilli
inviato a new york

La Russia è stata complice di un crimine di guerra? Dopo il raid di giovedì notte in Siria, questa pesante domanda incombe su Donald Trump e potrebbe costringerlo a cambiare strategia, provocando una pericolosa escalation.

 In principio, i missili lanciati sulla base di al Shayrat – di cui Washington aveva avvertito in anticipo gli alleati, Italia compresa – avevano tre scopi: punire Assad per l’attacco chimico di Khan Sheikoun; costringerlo a cambiare atteggiamento militare sul terreno; convicere lui e i suoi sostenitori, come la Russia e l’Iran, a prendere sul serio il processo negoziale gestito dall’Onu a Ginevra, per trovare finalmente una soluzione politica al conflitto. Un quarto obiettivo indiretto era quello di lanciare un segnale al mondo, sulla determinazione con cui la nuova amministrazione intende rispondere alle minacce, spingendo ad esempio il presidente cinese Xi invitato a Mar-a-Lago a fare più pressione sulla Corea del Nord per fermare il suo programma nucleare.

 

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Il segretario di Stato Tillerson e il consigliere per la sicurezza nazionale McMaster hanno confermato tale linea, in un briefing tenuto ieri mattina. «La nostra politica sulla Siria – ha assicurato Tillerson – non è cambiata». Con questo intendeva dire che l’obiettivo principale resta sradicare i terroristi dell’Isis, e non avviare un’invasione di terra per rovesciare Assad, come era disastrosamente accaduto con Saddam Hussein nel 2003. Lo scopo dei missili, in sostanza, non era «cambiare il regime, ma il comportamento di Damasco». L’ambasciatrice all’Onu Nikki Haley ha confermato questo concetto, spingendolo un po’ oltre: «Abbiamo preso una iniziativa limitata, e speriamo che basti. Riteniamo che la soluzione del conflitto stia nel processo politico». Nello stesso tempo, però, ha aggiunto una minaccia: «Se necessario, siamo pronti a fare altro».

 

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I russi hanno risposto che con l’attacco ad Assad gli americani stanno facendo il gioco dei terroristi, confermando almeno indirettamente la teoria secondo cui l’attacco chimico sarebbe stato lanciato dagli oppositori, per screditare il leader di Damasco proprio mentre stava vincendo sul terreno, e mentre Washington dichiarava che rimuoverlo non era più la priorità. In queste condizioni favorevoli, che interesse aveva Bashar a complicarsi la vita? I ribelli quindi avrebbero teso una trappola, e Trump ci sarebbe caduto dentro. Il presidente avrebbe ceduto ai suoi impulsi emotivi, dopo aver visto le immagini dei bambini colpiti, invertendo in 48 ore la linea politica stabilita tanto verso Assad, quanto verso Putin.

 

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Il problema con questa teoria sono le informazioni raccolte dall’intelligence americana. I servizi Usa hanno visto gli aerei che decollavano dalla base di al Shayrat, e li hanno seguiti fino a quando hanno sganciato le bombe chimiche su Khan Sheikoun. I militari russi erano nella base, e quindi o erano così incompetenti da non capire cosa stava succedendo, oppure erano complici. La questione è più complessa di una semplice speculazione, perché dopo l’attacco chimico l’intelligence americana ha notato un drone che sorvolava l’ospedale dove erano state portate le vittime. Ad un certo punto il drone si è ritirato, e un aereo è arrivato per bombardare l’ospedale con ordigni convenzionali, probabilmente allo scopo di cancellare le prove dell’uso delle armi vietate.

 

Il caccia impiegato era di fabbricazione russa, come molti degli apparecchi siriani, ma il Pentagono vuole chiarire chi lo stava pilotando. Il sospetto, infatti, è che si trattasse di un militare di Mosca. Se così fosse, i soldati del Cremlino non si sarebbero limitati a chiudere un occhio su quanto accadeva nella base di al Shayrat, ma avrebbero partecipato all’attacco chimico, rendendosi complici di un crimine di guerra. Questo renderebbe molto difficile sedersi di nuovo con i russi al tavolo negoziale di Ginevra, e aprirebbe la porta al rischio di una pericolosa escalation militare.

LA STAMPA

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