A UN MESE e mezzo dal suo controverso insediamento, Donald Trump ha compiuto il primo atto rilevante che ha messo d’accordo repubblicani e democratici, Unione europea e Nato, Israele e Paesi arabi in buoni rapporti con l’Occidente. Di più. Ha cancellato con una firma sei anni di dubbi, contraddizioni, disinteresse e – alla fine – mancanza di leadership che ha caratterizzato il doppio mandato di Barack Obama in politica estera. L’Occidente non ha bisogno di un presidente americano che vada a cercarsi la guerra, ma ha interesse a che a Washington ci sia qualcuno che sappia rispondere nei tempi e nei modi giusti alle provocazioni.

Il caso ha voluto che i 59 missili partissero mentre Trump cenava nel resort di Mar-a-lago con il presidente cinese Xi Jinping: con lui non si è parlato soltanto di guerre commerciali, ma anche dell’atteggiamento benevolo che la Cina ha nei confronti di Kim Jong-un, il giovane Nerone che guida la Corea del Nord.

Se Kim insistesse nel giocare con i missili, potrebbe trovarsene anche lui qualcuno in casa. È una escalation che nessuno si augura, ma il gesto di Trump serve a riposizionare gli Stati Uniti come potenza leader e a riprendersi un po’ di vantaggio strategico che la debolezza di Obama aveva concesso a Vladimir Putin.

La Russia ha protestato, ma era stata avvertita e la settimana prossima – tra la visita del segretario di Stato americano a Mosca e il G7 dei ministri degli Esteri a guida italiana a Lucca – potrebbe riaprirsi un dialogo. La disattenzione di Obama ha consentito alla Russia di installare a Tartus, in Siria, una importante base navale da cui le unità russe son potute rientrare nel Mediterraneo per la prima volta dopo la caduta dell’Unione Sovietica. È impensabile che Putin la molli. Ma potrebbe mollare Assad, che sta diventando troppo scomodo anche per lui.

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