Le grandi potenze pronte a creare zone cuscinetto per contenere Assad
Il blitz sulla base di Al-Shayrat, tornata operativa già ieri con un raid sulla cittadina colpita dall’attacco chimico, Khan Sheikhoun, ha soltanto scalfito le capacità offensive dell’aviazione siriana. L’avvertimento sulle armi chimiche è arrivato. La strategia del dopo non è ancora chiara. Se l’azione si ferma qui i più importanti alleati degli Usa nella regione saranno delusi. Israele, Turchia e Paesi del Golfo vogliono un’azione più incisiva che dia garanzie sugli assetti regionali alla fine della guerra civile.
Per Israele è strategico impedire che Hezbollah e le milizie fedeli all’Iran si installino sul confine Sud della Siria. I media israeliani hanno rilanciato ieri «indiscrezioni» provenienti dall’entourage di Benjamin Netanyahu. Il premier ha chiesto alla Casa Bianca due zone cuscinetto: una al confine fra Siria e Israele, lungo le alture del Golan, l’altra al confine fra Siria e Giordania, nella provincia di Daraa.
Le «buffer zone» sarebbero tutte in territorio siriano e senza la presenza di soldati israeliani. L’ipotesi più plausibile è che siano sul modello del Libano, con un contingente Onu a far da cuscinetto fra le forze siriane e le milizie sciite e gli eserciti israeliano e giordano. In questo modo, secondo Israele, si limiterebbe la capacità di Hezbollah di lanciare un attacco, e su un fronte molto più ampio di quello libanese.
LE AMBIZIONI DI ERDOGAN
Molto diversa è la «safe zone» che ha in mente il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. L’attacco chimico a Khan Sheikhoun gli ha dato l’occasione di smarcarsi da Mosca, tornare ad attaccare Assad e allargare le sue ambizioni nel Nord della Siria. Anche perché la sua operazione «Scudo dell’Eufrate» non ha raggiunto l’obiettivo di respingere i curdi a Est dell’Eufrate e prendere la città di Manbij, proprio per l’opposizione della Russia.
Ora il leader turco, alla vigilia del referendum costituzionale di domenica 16 aprile, punta a estendere l’influenza turca nella provincia di Idlib. Può contare sull’alleanza con il gruppo salafita di Ahrar al-Sham, presente nella provincia di Idlib assieme ai qaedisti di Hayat al-Tahrir al-Sham. Ma proprio la forza delle formazioni jihadiste rende molto più problematico un ingresso delle truppe turche.
IL KURDISTAN SIRIANO
Con il riallineamento della Casa Bianca sulle posizioni anti-Assad, Erdogan spera ora di ridimensionare il potere del raiss di Damasco, nemico dei Fratelli musulmani e dell’islam politico. E’ il modello che vorrebbe esportare in tutto il Medio Oriente. L’altro avversario da ridimensionare sono i curdi. Ma qui la «safe zone» che hanno in mente gli americani si scontra frontalmente con quella di Erdogan.
Anche se la scelta definitiva su chi debba entrare a Raqqa, dove ieri è stato compiuto un raid della coalizione a guida Usa che avrebbe causato anche 20 vittime civili, non è stata ancora presa, è chiaro che i curdi dello Ypg sono in pole position. Con Raqqa, e forse Deir ez-Zour, il Kurdistan siriano avrebbe dimensioni simili a quello iracheno, in marcia verso la piena indipendenza. Washington ha promesso molto ai curdi e difficilmente si potrà tirare indietro.
Con il Nord alla Turchia, il Nord-Est ai curdi e il Sud sotto controllo internazionale, la spartizione della Siria sarebbe un realtà. Soprattutto senza Assad al potere e con un governo centrale dominato dall’opposizione islamica sunnita filo-saudita (o in alternativa filo-Qatar). Ma arrivare a questo occorre smantellare le difese aeree russe per poter distruggere l’aviazione di Assad.
Il problema è militare e politico. Vladimir Putin ha schierato il meglio della tecnologia anti-aerea russa: l’ultima versione degli S300 e gli S400. Per l’analista militare Alex Kokcharov, dell’IHS Maarkit, questi sistemi sono «pienamente in grado» di intercettare i missili Cruise Tomahawk e la maggior parte dei cacciabombardieri americani, a parte gli invisibili F-22. Se venerdì gli S300 non hanno abbattuto i Tomahawk è perché i russi «hanno scelto di non farlo».
Imporre le zone cuscinetto implica un impegno militare americano di proporzioni molto più vaste. Uno scontro aperto con la Russia. L’alternativa è concedere una «safe zone» anche a Mosca: il nucleo duro del potere alawita, Tartus e Lattakia, e magari anche Damasco, con un Assad dimezzato.
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