A Milano il tribunale è un colabrodo
L’ armadietto con la vetrina è al suo posto, al terzo piano del palazzo di giustizia di Milano: a due passi dalla sala stampa, a quattro dalle aule di tribunale sempre affollate di processi. Dentro dovrebbe esserci il defibrillatore, l’attrezzo salvavita obbligatorio per legge nei luoghi di lavoro.
Ma l’armadietto è vuoto, da anni. Se qualcuno – avvocato, giudice, imputato – si sentisse male nei pressi, i soccorritori seguendo le frecce si troverebbero davanti alla vetrina vuota, e il tizio andrebbe al Creatore. Che fine abbia fatto il defibrillatore non si sa. Ma una cosa è certa: se questa violazione avvenisse in una società privata, il titolare verrebbe incriminato dai magistrati. Ma qui, dove comandano i magistrati, nessuno incrimina nessuno.
La faccenda del defibrillatore è solo un dettaglio, nel lungo viaggio che il Giornale ha compiuto nel tempio della Giustizia milanese. Un viaggio che da oggi e per tre puntate verrà raccontato con immagini forti sul sito internet, ilGiornale.it: e sarà interessante scoprire se davanti alla cruda eloquenza di queste immagini si continuerà a fare finta di niente. La sfilza di leggi che vengono violate nel palazzo che delle leggi è il simbolo è lunga e variegata: dalle norme sugli infortuni alla tutela della privacy, qui sembra che lo Stato chiuda un occhio. Per buona parte di queste mancanze è già pronta la solita scusa: mancano le risorse. Peccato che contemporaneamente vengano sprecati soldi in grande quantità per opere interminabili, inutili, bizzarre, di cui nessuno – ovviamente – è disposto a prendersi la responsabilità.
Tra gli sprechi (lasciando stare le due Passat blindate nuove di zecca, assegnate a magistrati di cui non risulta siano esposti a particolare pericoli; o episodi grotteschi come il tappeto rosso di trentacinque metri apparso di recente nell’anticamera del Procuratore generale) l’esempio più vistoso sono sicuramente gli innumerevoli megaschermi affissi in ogni angolo del palazzo, costati quasi tre milioni di euro, da anni perennemente accesi e mai utilizzati: a parte due di essi a pian terreno, che trasmettono gli slogan della Associazione magistrati (gli avvocati della Camera penale hanno protestato contro l’abuso a fini privati di un bene pubblico: invano). Ma il caso più eclatante è quello dell’aula bunker che i vertici del tribunale chiesero all’inizio degli anni Novanta di realizzare accanto al carcere di Opera, e mai del tutto terminata, oggetto di una inchiesta anch’essa interminabile (in fondo sono colleghi…) della Corte dei Conti. La versione ufficiale è che ora il bunker è quasi pronto. Purtroppo manca la strada per raggiungerlo. Il procuratore generale Roberto Alfonso, intervistato dal Giornale.it, dice che a realizzarla sarà il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ma al Dap replicano che al massimo possono ricavare un percorso all’interno del penitenziario: così per assistere a una udienza pubblica si dovrebbe passare per un carcere. Oltretutto a cosa serva un simile bunker in un’epoca in cui i maxiprocessi non si fanno quasi più è di difficile comprensione. Costo dell’opera, di rincaro in rincaro: oltre undici milioni di euro.
Di fronte a questi sperperi, diventa difficile giustificare il degrado che regna all’interno del Palazzo. Cortili e sotterranei trasformati in discariche. Aule affollate lungo i cui muri si aggrovigliano matasse di fili scoperti. Cantieri in cui non potrebbe entrare nessuno, e invece di libero accesso. Le famose balaustre che ad ogni piano separano dallo strapiombo delle scale e degli androni, e che arrivano a stento al ginocchio, col rischio di cadere nel vuoto al primo malore: oltre a costituire un incentivo a gesti inconsulti da parte di chi qui si aggira in condizioni di fragilità emotiva. e infatti in passato già due persone si sono lanciate nel vuoto. Da anni si parla di rialzarle ma, tranne un piccolo tratto non è stato fatto nulla.
Dell’incuria e del degrado che regnano all’interno del tribunale il sintomo più sconcertante sono però le centinaia e centinaia di fascicoli giudiziari che giacciono alla mercè di chiunque, pronti per essere consultati o addirittura prelevati. Anche in zone «sensibili» del palazzaccio, come l’ufficio del Giudice per le indagini preliminari, basta aprire un armadio per venire a scoprire passaggi delicati e dolorosi della vita delle persone incappate nei meccanismi della giustizia. I filmati che troverete sul sito del Giornale dimostrano senza possibilità di smentita la facilità di accesso a questi dati in teoria super-riservati.
Infine il tema della sicurezza antiterrorismo, reso drammatico dall’impresa di Claudio Giardiello, l’imprenditore che il 9 aprile 2015 uccise un giudice, un avvocato e un coimputato. Nel primo anniversario del massacro, il procuratore generale Roberto Alfonso annunciò l’avvio di un piano per la sicurezza del palazzo, «la proposta sarà inviata al ministero che la vaglierà e potrà dare il via libera. Per fine 2016 la prima tranche di lavori dovrebbe essere ultimata». Ultimata? Oggi, secondo anniversario della tragica impresa di Giardiello, non è neanche cominciata.
IL GIORNALE