La solitudine del raiss di Damasco

laura mirakian

Che Bashar al-Assad non sia uno stratega è ampiamente provato dai sei anni di guerra civile in cui ha perso oltre metà del territorio, sei milioni di siriani rifugiati all’estero e quasi mezzo milione di vittime, ritrovandosi legato a filo doppio con una potenza straniera come la Russia di Putin che persegue i suoi propri interessi e lo farà fino al punto di sua convenienza; il secondo asse è la dipendenza dalle assonanze con il vicino Iran, che pure muove da una propria strategia di consolidamento della direttrice mediterranea. Non uno stratega, Assad, semmai un tattico.

 Si diceva così anche di Milosevic, e sappiamo come è finita. Il suo istinto lo ha portato a non aprire un tavolo negoziale fin dalla ribellione di Dara’a nel marzo 2011, quando forse era ancora in tempo, non calcolando che non vi sarebbe stato motivo per la Siria di rimanere indenne dal malessere profondo che stava investendo altre società arabe. Un malessere che veniva da lontano, almeno una decina d’anni, e che in Siria si riassumeva in quel famoso passaggio della Costituzione che sanciva il partito unico, il Baath, rigidamente dominato dalla minoranza al potere. Un sistema chiuso, esclusivo, che relegava ai margini la classe media emergente a maggioranza sunnita.

 

Assad ha immaginato che un alleato come la Russia lo avrebbe posto al riparo dalle strategie di altri attori del vicinato, e che l’Iran avrebbe volentieri compensato con le sue milizie l’erosione di consensi tra le sue stesse Forze Armate. Per qualche tempo ha funzionato. Da ultimo, le propensioni filo-russe di Trump, la sua proclamata priorità alla demolizione di Isis e jihadisti, hanno rafforzato in lui la convinzione che lo scenario di «regime change» fosse sventato e la continuità del suo potere assicurata. Per contro, l’improvviso raid americano sulla base aerea di Sheikhoun il 6 aprile ha rimescolato le carte. Per stessa ammissione di Trump, dopo la tragedia di Idlib «l’approccio verso la Siria e verso Assad è molto cambiato».

 

Ora a Damasco regna la più grande incertezza. Assad non sa se quel raid rimarrà un unicum o sarà l’avvio di una vera e propria campagna militare. Non sa come Mosca reagirà, se si impegnerà in un confronto con Washington oppure verrà a patti, in tal caso abbandonandolo. Né può contare sui Paesi del vicinato a lungo antagonisti, che hanno inneggiato con manifesto sollievo al ritorno degli Stati Uniti in area. Ad eccezione dell’Egitto, il più tiepido, ma impegnato a sua volta in un difficile scenario interno. Né ha idea se la breve alleanza intessuta con i curdi del Rojava reggerà oppure saranno proprio loro a determinare alla fine lo smembramento del territorio, o se l’opposizione rivendicherà, come fatto finora, la fine del regime e la sua definitiva esclusione dal negoziato e dal potere.

 

In questa totale incertezza, Bashar Al Assad non ha veri amici. I fantasmi di altri leader arabi scomparsi di scena anche violentemente devono essergli ben presenti. Potrebbe allora essere tentato di tornare a rivolgersi agli europei, con cui negli scorsi anni ha negoziato un accordo di associazione purtroppo mai concluso e ratificato. Loro sono i primi a subire così pesantemente le conseguenze della crisi siriana in termini di terrorismo e insicurezza alle frontiere, ed ora, pur con diverse sfumature, uniscono ad un misurato plauso per l’iniziativa militare americana una forte raccomandazione per una soluzione politica della crisi e la ripresa dei negoziati di Ginevra. Lo schema del negoziato è quello che risale al Piano di Kofi Annan del 2012, partecipazione di tutte le forze in campo incluso quindi anche Assad, periodo transitorio da utilizzare per l’elaborazione di una nuova Costituzione, e a termine elezioni pluripartitiche. Un percorso che, nelle circostanze date, potrebbe rivelarsi una vera risorsa.

 

Con questo articolo inizia la collaborazione con La Stampa di Laura Mirakian, ex ambasciatore a Damasco

 

 

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