Il prof D’Avenia e la ministra Fedeli
La ministra e il professore in singolar tenzone. Una di fronte all’altro all’Università Statale di Milano, la titolare dell’Istruzione Valeria Fedeli e Alessandro D’Avenia, insegnante e scrittore. I due si sono incontrati per riprendere dal vivo un dialogo iniziato sulla Prima pagina de La Stampa il 15 e 16 marzo. Nel frattempo c’è stata l’approvazione in Consiglio dei ministri dei decreti attuativi della Buona Scuola. Invece di far proseguire il botta e risposta su carta li abbiamo invitati a incontrarsi. Hanno accettato.
V.F. Mi fa piacere che anche lei ritenga il nuovo reclutamento un punto di cambiamento, io ci conto molto. Vuol dire immaginare di avere docenti più motivati, più formati e che sono già stati valutati sul saper stare in classe. Il mio obiettivo, poi, è far entrare quelli che hanno vinto gli ultimi concorsi, sono più giovani. Infine conto anche sul piano di formazione straordinario dei docenti in servizio.
A.D’A. Ma perché non riusciamo a portare a sistema un discorso di merito ordinariamente? Perché, e parlo da insegnante, abbiamo così paura di essere valutati? L’unico criterio è stata l’anzianità.
V.F. So che ci sono già critiche pubbliche, ma io ho mantenuto il test Invalsi. Quello è un elemento di certificazione e di valutazione della scuola.
A.D’A. E dei docenti?
V.F. Verranno fuori anche le singole responsabilità. Il test Invalsi è un elemento su cui costruire lo strumento della valutazione. Mi dispiace se gli studenti già venerdì hanno deciso di manifestare su questo.
A.D’A. Ma è proprio impensabile che un dirigente scolastico insieme a famiglie e ragazzi esprima una valutazione, al di là di questa carambola che facciamo con l’Invalsi?
V.F. Questo lo considero demagogico. Perché dà l’idea, che non condivido, che c’è un non rispetto della funzione docente, mentre io penso si debba tornare a vedere nell’insegnante una figura centrale, una delle professioni più importanti.
A.D’A. Non lo farei se non lo credessi… Una provocazione: noi abbiamo al momento una spesa sui 7 mila euro per ogni studente, una retta da scuola paritaria di un certo tipo. Possibile che a fronte di un impegno così, e non sufficiente, ci sia tanta dispersione di risorse?
V.F. In che senso?
A.D’A. Famiglie che devono mettere loro i soldi per avere la carta igienica a scuola… Non sono cose di fantascienza…
V.F. Abbiamo iniziato a finanziare da tre anni, e prima il settore scuola era preso solo per tagliare, cosa che io considero un errore grave anche in tempi di crisi. Detto questo, i finanziamenti vanno direttamente alle scuole. Punto. Anche negli ultimi finanziamenti, delle 10 azioni dei Pon (Programma Operativo Nazionale, ndr), i milioni per la programmazione sulla cittadinanza globale vanno direttamente sui progetti; se sono usati male è legittimo intervenire.
A.D’A. In un’ottica di merito a livello di istituto possiamo portare a sistema di rendere i bilanci trasparenti?
V.F. È già a sistema, anche perché c’è un obbligo di rendicontazione.
A.D’A. Altra cosa che mi sta a cuore. Noi abbiamo in questo momento, nella scuola, delle «quote azzurre» deficitarie…
V.F. Prego? Me ne vado, non deve usare la parola quote, usi «norme antidiscriminatorie».
(Segue una lunga – troppo per riportarla – discussione sulle retribuzioni dei docenti, ndr).
A.D’A. Parliamo delle nuove regole di reclutamento. Il triennio sarà retribuito in crescendo. Il primo anno quanto?
V.F. Sui 600 lordi, poca roba, ma il secondo anno puoi fare supplenze e integri, il terzo fai proprio la supplenza annuale.
A.D’A. È un sistema che conosco perché io ho preso l’abilitazione in un momento in cui c’erano le Ssis, quindi ho fatto il concorso e poi i due anni, la mattina insegnavo, il pomeriggio facevo le lezioni alla Ssis; ho a cuore che in questi tre anni si abbia anche la possibilità di campare, perché nel frattempo dovevo pagarmi le tasse universitarie della Ssis insegnando al mattino. Però 600 euro…
V.F. Ma siamo all’inizio di una scelta che abbiamo fatto…
A.D’A. Un bel modo di educare le nuove leve sarebbe dire: tu inizi e io ti do lo stipendio quanto meno di un dottorato…
V.F. Ma perché sei ancora in formazione…
A.D’A. Però come si campa?
V.F. Come si campava prima?
A.D’A. Sì ma sono 5 anni più tre, io ho già una laurea.
V.F. Quindi? È come se facessi un altro pezzo di formazione.
A.D’A. Ma sono già vincitori di concorso!
V.F. Sì, ma entri nel nuovo meccanismo e sai che dopo quel periodo se sei valutato positivamente hai il posto sicuro e il ruolo, quindi togliamo tutta la questione del precariato.
A.D’A. Ultimo punto: l’orientamento. Noi abbiamo percentuali spaventose di ragazzi che hanno sbagliato Facoltà perché a scuola l’orientamento è inesistente e viene intercettato da open day che sono più o meno pubblicità delle Università; niente di male, ma così i ragazzi vengono presi dai copioni che tirano di più, del «così fan tutti». Mi chiedo se in quegli investimenti di cui lei parla – digitalizzazione etc. – non potremmo metterlo come prioritario, perché le assicuro che l’orientamento per i ragazzi viene prima di avere un computer in classe, o la Lim.
V.F. Intanto c’è l’alternanza scuola-lavoro, diventata strutturale con la legge 107. Significa che tu hai una innovazione didattica che porta a incrociare il mondo del lavoro, e non per coprire posizioni che devono essere svolte dai dipendenti.
A.D’A. Ci si lamenta sia un apprendistato non retribuito…
V.F. Non lo è. Ma io penso che dovremmo occuparci di più di quello che avviene tra II e III media, per sostenere ragazze e ragazzi nella scelta «di studio» prima ancora «di quale» studio. Abbiamo presentato l’esperienza fatta dal Sant’Anna, una buona pratica che vorrei provare a far diventare più strutturale (la descrive, ndr). Dimostra che con l’orientamento puoi togliere le barriere in ingresso e anche i talenti di ragazze e ragazzi da famiglie svantaggiate non hanno più un destino segnato.
A.D’A. La mancanza di questo sguardo rende la scuola paradossalmente classista, rafforza le situazioni di partenza
V.F. Sono d’accordo. Abbiamo finito su una cosa su cui convergiamo.