L’arma impropria della giustizia
«È mejo del Duce». È passato quasi un quarto di secolo da quando Maurizio Gasparri trovò ridendo la sintesi della sua cotta per Antonio Di Pietro. Cotta condivisa («Lo consideravamo il nostro referente nel pool di Mani pulite», dirà ai giudici Cesare Previti) da un po’ tutto il centrodestra. «Di Pietro vada avanti a tutta manetta», tuonava Umberto Bossi. «Le mie tivù sono al suo servizio», incoraggiava Silvio Berlusconi. «Ha fatto bene il poliziotto, ha fatto bene il giudice, potrebbe fare altrettanto bene anche il politico», omaggiava Pier Ferdinando Casini. E via così…
Come sia finita si sa. Raffreddati gli entusiasmi che avevano spinto la destra a offrirgli il Viminale, vinse infine il corteggiamento di Massimo D’Alema («Conosco Di Pietro per una strana coincidenza: ci siamo simpatici») e sull’ex pm «traditore» si rovesciarono anni di insulti. Sintetizzati in uno sfogo del Senatur («Un terun che voleva fare un processo etnico al Nord») e uno del Cavaliere: «È il leader dei forcaioli».
Eppure, un quarto di secolo dopo, buona parte dei politici, quale che sia la tessera in tasca, sembra non essersi ancora liberata dalla tentazione di leggere ogni inchiesta giudiziaria, ogni avviso di garanzia, ogni fuga di notizie, ogni spiffero sortito dalle intercettazioni, con gli occhiali della bottega partitica cui appartengono. Chi aiuta? Chi danneggia? Dove può portare?
«Un’altra macchinazione! Mio papà sta piangendo», ha detto Matteo Renzi dopo aver saputo del rapporto taroccato su suo padre, ribadendo «la piena fiducia nei giudici». «Non possiamo non rilevare come in nessun passo della predetta sentenza si sostenga che la Cassimatis è la candidata sindaco del Movimento 5 Stelle», ha spiegato Beppe Grillo. Ma in ogni caso «la stessa non è né sarà candidata con il Movimento 5 Stelle a Genova». Perché anche la magistratura, ogni giorno invocata, può bene sbagliare!
Diranno i grillini che loro no, non hanno mai indugiato in questo gioco. E non hanno mai affermato come Berlusconi che ci son «giudici che si sono fatti braccio armato della sinistra per spianare a questa la conquista del potere». Né hanno messo in discussione il lavoro dei magistrati come la sinistra in varie inchieste come sui rapporti con Raul Gardini (e la famosa valigetta…), su Filippo Penati e «il sistema Sesto», sulla scalata Unipol e altre ancora…
I due pesi e le due misure usati nei confronti di vari esponenti del M5S, a partire da Federico Pizzarotti rispetto a Filippo Nogarin che solo «dopo» ha riconosciuto l’esistenza di indagini su di lui liquidate dal blog grillino col titolo «Falso!» (per non dire della campagna «Non comprate il Tirreno: non finanziate la disinformazione di regime!») dicono però che la tentazione di gonfiare o sgonfiare ogni mossa dei giudici a seconda di chi è nel mirino è ben presente anche nel Movimento.
Dice tutto il confronto sulla gravità di due fatti rinfacciati agli ultimi sindaci di Roma. Di qua l’invettiva («#MarinoDimettiti e Roma subito al voto!») contro Ignazio Marino reo di «avere mentito non solo ai cittadini romani, bensì all’istituzione del Campidoglio» dichiarando «il falso, ovvero di aver pagato il 26 ottobre 2013 una cena al ristorante “Sapore di Mare” ad alcuni rappresentanti della Comunità Sant’Egidio». Cena smentita. Di là la scelta di sdrammatizzare le polizze vita sottoscritte da Salvatore Romeo o le bugie sull’assessore Paola Muraro «non indagata» (lo era: e lei lo sapeva) o sulla promozione («feci tutto io»: falso) di Renato Marra, fratello del potentissimo Raffaele. Cosa sarebbe successo se il protagonista fosse stato un sindaco di destra o di sinistra?
«A nostro avviso l’onestà deve essere il faro ma attenzione che non venga utilizzato strumentalmente per colpire una forza politica che sta tentando di riportare pulizia e legalità», spiegò un anno fa la non ancora sindaca a CorriereLive. Di più: «Attenzione che gli avvisi di garanzia non vengano utilizzati come dei manganelli».
Giustissimo. Ma questo è il nodo. Lei stessa fu infatti la prima a liquidare come un appestato, dopo la scoperta che aveva un «avviso», il nuovo assessore al bilancio Raffaele De Dominicis, lodato il giorno prima come «persona di primissimo piano e di alto profilo» da sempre impegnata «per la legalità e la trasparenza». Un trattamento già riservato dal blog beppegrillo.it a Bruno Valentini, sindaco Pd di Siena, «avvisato» e subito incitato a sloggiare (#ValentiniDimettiti) col contorno del solito refrain («nessun telegiornale di regime riportò la notizia») e destinato poi a Luca Lotti, Tiziano Renzi e così via. Tutti colpevoli prima ancora non solo di una sentenza, fosse pure di primo grado, ma di un processo. Esattamente come Ilaria Capua, coperta di insulti e poi prosciolta. Senza scuse.
Come la mettiamo: ci sono giudici buoni e giudici cattivi? Avvisi di garanzia pesanti come incudini e leggeri come piume? Carabinieri affidabili e carabinieri inaffidabili a seconda degli inquisiti, come quello indagato per aver falsato l’inchiesta Consip dando origine, tra l’altro, a una frattura tra le stesse Procure di Napoli e di Roma?
Certo, succede anche all’estero che le notizie giudiziarie finiscano nel frullatore della politica. Ovvio. Ma non con la frequenza che registriamo noi. Non con gli stessi toni. Non con l’immediato dispiegamento di partigiani sull’una e l’altra trincea a prescindere, troppe volte, dai fatti. Eppure dopo tanti anni dovremmo avere imparato qualcosa. È indispensabile vigilare sì, sempre, sul lavoro della magistratura e gli eventuali abusi. Ne abbiamo già visti. Basta. Il buon senso, però, suggerisce di lasciare anche che i magistrati lavorino. O c’è chi pensa che possa essere la politica, rovesciando le parti, a esercitare le funzioni di supplenza e magari a scegliersi i giudici volta per volta?
CORRIERE.IT