I conti provvisori dell’Italia

ENRICO MARRO

Def sono sempre un po’ «finti», nel senso che ad aprile pretendono di indicare quale sarà la manovra di finanza pubblica che scatterà l’anno successivo, cioè dopo otto mesi: un tempo lunghissimo in economia. Puntualmente gli scenari cambiano, le previsioni vengono smentite, gli equilibri politici mutano e a settembre il governo ricomincia da capo. Ma questa volta il Documento di economia e finanza approvato dal consiglio dei ministri è «finto» per ammissione dello stesso governo. Come hanno spiegato il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, si tratta di un piano provvisorio, in attesa di far cambiare idea all’Europa. Il Def descrive infatti un quadro di politica economica che contiene un messaggio alla commissione europea: con manovre espansive l’economia cresce mentre con manovre restrittive il prodotto interno lordo frena. I numeri presentati dal governo lo dicono chiaramente. A partire dal Pil previsto per quest’anno, che il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, vede in crescita dell’1,1% contro l’1% stimato fino a qualche settimana fa.

E questo nonostante la manovrina aggiuntiva da 3,4 miliardi. Stiamo parlando di decimali di punto, è vero. Ma ciò che conta è che il governo vede un miglioramento dell’economia anche in seguito alla flessibilità di cui ha goduto negli ultimi due anni (circa 19 miliardi di euro) grazie al via libera di Bruxelles. S e questa flessibilità non fosse accordata anche per i prossimi anni, le conseguenze sarebbero negative. Per dimostrarlo Padoan da un lato mantiene l’obiettivo di tagliare il deficit all’1,2% del Pil nel 2018 e allo 0,2% nel 2019, in ossequio alle regole Ue, ma modifica, rispetto alle precedenti previsioni, la stima di crescita, abbassandola all’1% sia per il 2018 sia per il 2019, contro l’1,3% e l’1,2% stimati in precedenza.

Anche qui decimali, ma il messaggio è chiaro: se l’Italia sarà costretta ad abbattere il deficit dal 2,1% di quest’anno all’1,2% nel 2018, dovrà fare, solo per questo, una manovra da oltre 16 miliardi e l’economia rallenterà, invertendo quel processo virtuoso cominciato nel 2014 (Pil + 0,1%, poi nel 2015 salito allo 0,8%, nel 2016 allo 0,9% e quest’anno appunto all’1,1%). Per continuare sul sentiero della crescita, dice il governo, servirà invece una manovra espansiva, che disinneschi l’aumento dell’Iva (clausole di salvaguardia) e supporti gli investimenti. Una manovra per il 2018 che, il Def non lo dice ma il governo nelle scorse settimane lo ha lasciato intendere, dovrà essere finanziata per una decina di miliardi con un aumento del deficit, che quindi dovrebbe avvicinarsi al 2%. Solo che per cambiare l’1,2% confermato per il momento nel Def ci vuole una trattativa con Bruxelles. Che certamente, sotto la guida di Jean-Claude Juncker è molto meno rigida che in passato. Ma che si aspetta dall’Italia argomenti convincenti su due capitoli: le riforme strutturali e il calo dell’enorme debito pubblico.

Sul primo fronte il governo manderà a Bruxelles un Pnr, Piano nazionale di riforme, ricco di provvedimenti che tuttavia devono ancora essere attuati: dalle misure contro la povertà alla concorrenza, dai nuovi incentivi sulla contrattazione aziendale al miglioramento della giustizia. Sulle privatizzazioni, invece, il Def registra un arretramento. Mentre finora il governo stimava proventi da cessioni delle società pubbliche per mezzo punto di Pil all’anno, cioè 8 miliardi, adesso si scende allo 0,3%, meno di 5 miliardi. Una frenata dovuta alle resistenze del Pd renziano in particolare su Ferrovie e Poste. Anche qui questione di decimali, ma indicativa della provvisorietà del piano. Ora la partita si sposta a Bruxelles e i tempi sono stretti. Entro maggio il governo Gentiloni deve evitare l’apertura della procedura per debito eccessivo e ottenere nuova flessibilità in vista del 2018.

Un fronte comune tra forze di maggioranza e di opposizione aiuterebbe, ma l’acceso clima di fine legislatura va in direzione opposta. E invece servirebbe una linea ampiamente condivisa anche sul punto che fa da sfondo a tutto questo discorso: il Fiscal compact, cioè l’accordo intergovernativo del 2012 che detta tra l’altro la controversa regola del pareggio di bilancio, e che, secondo l’articolo 16, dovrebbe essere «incorporato nell’ordinamento giuridico dell’unione europea» entro il 2017. Anche se molti fanno finta di dimenticarlo, il 19 luglio 2012 il Fiscal compact fu approvato alla Camera con un voto bipartisan Pd-Pdl (solo la Lega votò compatta per il no). Lo scorso novembre Renzi, quando era ancora sicuro di vincere il referendum costituzionale, disse: «Nel 2017 l’Italia dirà no all’inserimento del Fiscal compact nei trattati». Ora l’argomento andrebbe sottratto alla campagna elettorale e affrontato per l’importanza che ha, di nuovo con spirito bipartisan, nell’interesse del Paese. Valutando bene i pro e i contro di un eventuale ripensamento. Ne saranno capaci i partiti?

CORRIERE.IT

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