Tetto sugli stipendi e vecchie indennità in Parlamento: il ritorno al passato
Care, vecchie indennità. Massacrate dalla furia rigorista che non ha risparmiato, pensate, neppure gli stipendi di Camera e Senato, eccole di nuovo. È l’ineluttabile risultato di una decisione presa dalla «Commissione giurisdizionale per il personale della Camera dei deputati», ovvero l’organismo interno delegato a giudicare i ricorsi dei dipendenti del parlamento. Dove l’autodichìa, ovvero quel sistema per cui le decisioni prese nel Palazzo non sono sindacabili né sono sottoposte a controlli esterni, non riguarda solo gli eletti ma si estende anche a chi lavora lì dentro.
Con il risultato che le controversie non si discutono in tribunale davanti al giudice del lavoro, bensì davanti a una commissione interna composta da una terna di deputati. Tutti e tre del Pd e due dei quali, nella fattispecie, renziani a quattro ruote motrici: il presidente Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd, ed Ernesto Carbone. Il che rende il tutto ancora più singolare, considerando quanto fu deciso dall’ex segretario democratico nel difendere il tetto dei 240 mila euro agli stipendi pubblici. Ma tant’è.
La storia di cui stiamo parlando comincia proprio quando si decide di applicare quel tetto anche ai dipendenti di Camera e Senato. La cosa provoca violente reazioni, che riescono a mitigare l’intervento, limitando i danni. Al punto che ora lo stipendio lordo del consigliere parlamentare con la maggiore anzianità può attestarsi sui 358 mila euro, quasi il 50% più del tetto di cui sopra pari alla retribuzione del presidente della Repubblica. Mentre un documentarista tecnico ragioniere può arrivare a 237.990. Ma il taglio finisce per spiovere anche sulle indennità di funzione: somme aggiuntive alla paga base in relazione al ruolo ricoperto. Per capirci, il segretario generale percepisce ora per questa voce 662 euro netti al mese, contro i 2.206 di prima.
La sforbiciata non va giù quasi a nessuno, ma i più la ingoiano. In 575, invece, fanno ricorso, e sulle indennità la spuntano. Il conto per la Camera sale così di 2 milioni, facendo infuriare il deputato grillino segretario dell’Ufficio di presidenza, Riccardo Fraccaro. E non solo.
Anche perché questo altro non è che il preludio del ritorno al passato. Un anno fa tanto la Camera quanto il Senato avevano infatti accolto alcuni ricorsi che chiedevano di affermare il principio che il riferimento al tetto dei 240 mila euro lordi annui avrebbe avuto valore limitato nel tempo. Ritenendosi del tutto superato con la fine dell’attuale legislatura.
Ci sarebbe stata anche la possibilità di un giudizio d’appello (sempre con le commissioni interne, ovvio) ma entro un termine che invece è trascorso inutilmente. Né le invocazioni dei questori che chiedevano di lasciare in eredità al nuovo Parlamento la riconferma dei tagli hanno trovato udienza. Ragion per cui, a meno di sorprese, dal prossimo anno gli stipendi dei dipendenti dei due rami del Parlamento torneranno ai livelli di prima.
Del resto, se si prende in esame la media delle retribuzioni, i tagli non hanno creato scompiglio più di tanto nelle doratissime busta paga delle Camere. Dai dati di bilancio si deduce che nel 2017 lo stipendio medio di un dipendente del Senato sarebbe pari a 148 mila euro: identico in termini reali (considerando cioè l’inflazione) a quello di dieci anni fa. Meglio ancora alla Camera, dove la paga media di 138 mila euro risulterebbe ancora più alta, sia pure dello 0,8%, di un decennio prima.
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