I democratici provano il blitz: vogliono il voto palese in Senato sulle dimissioni di Minzolini
Roma – Sul caso Minzolini, il Pd mette le mani avanti: «Chiederemo al Senato di autorizzare il voto palese anziché segreto sulle sue dimissioni», ha annunciato il capogruppo democrat Luigi Zanda.
Una decisione più di facciata che di sostanza, perché secondo regolamento il voto sulle persone è segreto (solo nel 2013, sulla decadenza di Silvio Berlusconi, venne fatta un’eccezione sostenuta anche dal Pd) e difficilmente il voto, previsto oggi pomeriggio, verrà rinviato per consentire alla Giunta per il regolamento di deliberare una nuova deroga. Ma serve al Pd per mettersi al riparo da eventuali, temutissime trappole nel segreto dell’urna. «I Cinque Stelle proveranno di sicuro a far bocciare la richiesta di dimissioni di Minzolini per accollare a noi la responsabilità», dicono in casa dem.
Augusto Minzolini, ex direttore del Tg1 e senatore di Forza Italia, ha annunciato di volersi dimettere da Palazzo Madama, nonostante la «vittoria» (a voto segreto) riportata quando, a metà marzo, fu approvato con 137 voti a favore, 94 contrari e 20 astenuti l’ordine del giorno presentato da Forza Italia con cui si chiedeva di respingere la delibera della Giunta per le elezioni e le immunità favorevole alla decadenza di Minzolini per «incandidabilità sopraggiunta»,
in seguito ad una discussa sentenza di condanna a due anni e sei mesi di reclusione per peculato, per l’uso della carta di credito aziendale Rai. Scoppiò un putiferio, con i Cinque Stelle che gridavano al «voto eversivo» e Luigi Di Maio che minacciava «violenze di piazza», accusando il Pd di aver salvato il giornalista perchè 19 senatori democrat avevano votato a favore di Minzolini e 24 non avevano partecipato al voto. In verità, in quell’occasione, molti senatori Pd rivendicarono apertamente il proprio voto, in nome del garantismo su una sentenza che lasciava dietro di sè parecchi sospetti di fumus persecutionis, una «vicenda kafkiana» come la definisce il suo protagonista. Luigi Manconi, uno dei senatori Pd che votarono contro la decadenza, spiegò: «Non sono amico di Minzolini. Ma la Corte dei Conti gli ha dato ragione, e il Tribunale del Lavoro ha detto alla Rai di ridargli i soldi che aveva restituito. Dunque abbiamo una situazione per lo meno controversa che pesa nella valutazione politica che eravamo chiamati a dare».
La situazione di oggi è un po’ diversa: non si tratta di decadenza, accantonata, ma di dimissioni decise dallo stesso senatore: «Sono una persona seria e non prendo lezioni da altri. Voglio tornare a fare il giornalista». La prassi parlamentare prevede che almeno la prima volta, le dimissioni di un suo membro vengano respinte dall’aula, in segno di cortesia. Ma il Pd (con Sel, Lega e Cinque Stelle) è, almeno formalmente, compatto sul via libera immediato alle dimissioni, cui invece si opporranno Forza Italia, Alternativa popolare e verdiniani. L’unico vero timore è il voto segreto, e una spregiudicata manovra diversiva dei grillini. LCes
IL GIORNALE