Suicidio assistito: a Zurigo, dentro la casetta blu dove si va a morire
di Jacopo Storni
ZURIGO – Un divano bianco e un tappeto marrone. La tovaglia colorata e le tazze per il tè. E poi il lettino con le lenzuola arancioni, un comodino in legno e un piccolo giardino con un laghetto. Tutt’intorno, l’immacolata campagna svizzera.
Per morire vengono qui, in questa casetta con i muri colorati di blu, a pochi chilometri da Zurigo. Duecento malati gravi ogni anno provenienti da ogni parte del mondo: Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Cina, Giappone, India, Taiwan. E Italia, naturalmente. Qualcuno la chiama “la casetta della morte”, un termine che non piace all’associazione Dignitas, che dalla sua fondazione, nel 1998, ha accompagnato al suicidio assistito circa 2mila persone. Malati di Sla, Parkinson, tetraplegici, malati psichiatrici. Uomini e donne, manager e impiegati, credenti e non. Tutti hanno scelto di mettere fine a una vita diventata intollerabile. Tra questi Dj Fabo. “Vogliamo dare ai nostri aderenti una vita dignitosa e una morte dignitosa” dice Sandra Martino, responsabile dell’associazione.
Eppure la morte è ancora tabù, anche in Svizzera, dove il suicidio assistito è comunque legale. “Siamo stati costretti a costruire la casetta blu in una zona industriale perché non abbiamo avuto i permessi per costruirla vicino alle abitazioni. Le persone hanno paura della morte, ma la morte fa parte dell’esistenza. Tutti vogliono avere la possibilità di una morte dignitosa, eppure la gente si rifiuta di avere nelle proprie vicinanze una casa in cui le persone vengono a terminare con dignità la propria vita”. Per i malati gravi, questa casa rappresenta il termine della sofferenza, la frontiera del fine vita. Sono terrorizzati dall’idea di finire come vegetali in un letto d’ospedale. Arrivano qui dopo un lungo percorso fatto di visite mediche che accertano le loro malattie terminali, o comunque intollerabili. I medici danno il via libera soltanto se il paziente è capace d’intendere e volere e se dimostra autonomia nella decisione. Si paga 10mila euro per morire, queste sono le tariffe, di cui gran parte serve a coprire le spese per visite mediche, servizi funebri, cremazione e iter burocratico per l’atto di morte internazionale.
In questa casetta, i malati trascorrono le ultime ore: meditano nel giardino, riflettono sul senso della vita, osservano la natura, fanno un bilancio della propria esistenza, bevono una tazza di tè, passeggiano nel verde circostante laddove le condizioni fisiche lo consentono. E’ l’inizio della fine. Arrivano in Svizzera coi propri familiari. Mogli coi propri mariti, madri coi loro figli. Gli accompagnatori rischiano sanzioni penali per essersi resi complici di un suicidio. Ma per i malati non si tratta di suicidio, “loro sono felici di mettere fine al dolore”. Quando si sentono pronti, si stendono sul lettino. Trascorrono qui gli ultimi minuti. Stringono le mani dei propri cari, sguardi reciproci d’amore eterno. Un fermo immagine che resta per sempre. Poi ingeriscono il farmaco letale, un amaro liquido composto di sodio pentobarbital. Si addormentano nel giro di pochi minuti, le mani sulle mani dei familiari. E il loro cuore smette di battere, il respiro si spegne. Incantesimo fatale, fine della vita. “La maggior parte di loro sorride prima di ingerire il farmaco – racconta Sandra Martino – Hanno gli occhi lucidi ed esprimono felicità perché smettono finalmente di soffrire. Naturalmente, c’è anche profonda tristezza perché lasciano per sempre i loro cari. Ma comunque grande determinazione”.
All’associazione Dignitas arrivano fino a dieci lettere al giorno. “Ma soltanto il 3 per cento dei nostri aderenti – dice Martino – sceglie poi per il suicidio assistito. Tutti gli altri cambiano idea e in questo senso la nostra associazione svolge un importante ruolo di prevenzione al suicidio”. Un tema, quello della morte volontaria, su cui dovrà discutere il Parlamento italiano nell’ambito della legge sul biotestamento: “Se i malati terminali potessero scioperare e manifestare – ha detto Marco Cappato, il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni che ha accompagnato in Svizzera Dj Fabo – la legge sul biotestamento ci sarebbe da 30 anni. Il consenso a buone regole, che consentano al malato di scegliere anche alla fine della propria vita, è ormai vastissimo. Se il Parlamento dovesse mancare anche questa occasione, svuotando il testo in discussione oppure trascinandolo di rinvio in rinvio fino alla fine della legislatura, sarebbe un danno enorme non solo per le tante persone che vivono il dramma della malattia, ma anche per le stesse istituzioni democratiche”.
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