Manovra, l’inutile scontro tra tecnici e politici prepara il “settembre nero” dei conti

di MASSIMO GIANNINI

L’UNICA cosa certa nella vita, diceva Beniamino Franklin, sono la morte e le tasse. Ma dieci giorni dopo il varo della “manovrina di primavera“, famiglie e imprese non sanno ancora di che tasse devono morire. Né al Quirinale, né in Gazzetta ufficiale, c’è traccia di un testo che spieghi come il governo intenda mettere insieme i 3,4 miliardi che ci servono a evitare la procedura d’infrazione europea. Cos’hanno approvato quel martedì 11 aprile, in Consiglio dei ministri, resta un mistero misterioso. A un crescente deficit pubblico (da riportare quest’anno sotto il tetto del 2,1%) si somma così un inquietante deficit informativo. Ma non è cattiveria, e neanche imperizia. È semplicemente incoscienza. Camminiamo su un crinale pericolosissimo, come avvertono Bce e Fondo Monetario: la ripresa è molto fragile, il bilancio ancora instabile, il mercato sempre più volatile.

Ci aspetta un autunno infernale, quando i miliardi da trovare saranno ben 45 (tra 19,5 miliardi per correggere il disavanzo all’1,2% e disinnescare le clausole di salvaguardia sull’Iva, 10 miliardi per le “spese indifferibili”, a partire dalle missioni militari, più tutte le misure di “sviluppo”, dal cuneo fiscale in poi). E nonostante il “settembre nero” che ci aspetta, alla politica non bastano dieci giorni per trovare un accordo sulle misure da infilare in quello che doveva essere un “decretino-tampone” di pochi commi, e che invece si sta trasformando in un mostruoso “decretone-omnibus” da una settantina di articoli (con il vivo ma inutile disappunto costituzionale del Capo dello Stato). Una zuppa di balzelli e prebende di ogni genere (dalla ricostruzione per il terremoto alla concessione per il Gratta&Vinci, dallo split payment per i fornitori dello Stato alla maxi-multa per i “portoghesi” sugli autobus). E se queste sono le premesse, c’è da temere il peggio per quello che accadrà quando il provvedimento andrà in pasto al Parlamento, che in piena campagna elettorale per le amministrative dell’11 giugno avrà sessanta giorni per convertirlo, e quindi per infarcirlo delle rituali mancette a uso e consumo di lobby e cacicchi locali.

Questa incredibile confusione programmatica del governo non nasce per caso. Riflette l’intollerabile pressione politica del Pd. Lo scontro in atto tra tecnici e politici ha ormai raggiunto vette sublimi (se la caduta successiva non fosse inevitabilmente rovinosa per noi cittadini). Il ministro del Tesoro Padoan, domenica scorsa, ha azzardato uno scambio solenne: lasciamo che dal 2018 scatti almeno una parte degli aumenti Iva previsti dalle clausole di salvaguardia (magari quelli sull’aliquota massima, dal 22 al 25%), e con il ricavato ci finanziamo un robusto taglio del cuneo fiscale (cioè meno tasse e contributi sui salari). Un’idea ardita, per tre buone ragioni: il problema della mancata crescita italiana non deriva dalla qualità dell’offerta ma dalla scarsità della domanda, aumentare l’imposta sul valore aggiunto non aiuta i consumi anche se non penalizza le esportazioni, e infine non è affatto detto che faccia salire un po’ l’inflazione, e quindi contenga il costo degli interessi sul debito in rapporto al Pil nominale. Ma insomma, un’idea sulla quale riflettere (tanto più che a certificarne la validità dottrinaria sono istituzioni come Bankitalia e Ocse).

A Matteo Renzi sono bastate ventiquattrore, per affossare Padoan e la sua proposta. “Il Pd le tasse non le aumenta e non le aumenterà: abbiamo rottamato Dracula”. E al ministro ne sono bastate altre dodici, per procedere a una disonorevole ritirata: “Nessun aumento Iva: il governo si è impegnato a sostituire l’incremento delle imposte con misure alternative dal lato delle spese e delle entrate”. Insomma: eravamo su scherzi a parte. Al di là delle facili ironie, questo ennesimo gioco al massacro conferma due cose. La prima: Renzi esercita una presa micidiale sul governo, che diventerà totale dopo le primarie del 30 aprile. La seconda: il “manovrone d’autunno” o sarà uno leggero spot elettorale leggero come una piuma (che stavolta ci può costare una vera rottura con l’Europa) o dovrà diventare una “Finanziaria pesante”, ma in quel caso coinciderà con il voto anticipato perché le spalle esili di Gentiloni non possono reggerne il peso politico. L’ex premier, e già neo-segretario in pectore del Partito democratico, per ora si mantiene nel solco della leggerezza. L’ha detto chiaramente, perché l’amico Paolo intenda. Di qui a settembre, nessuno si azzardi a parlare di lacrime e sangue o di buchi di bilancio da riempire. Al contrario, “abbiamo lasciato un bel tesoretto da 47,5 miliardi” da spendere (peccato che si tratti di cifre virtuali di qui al 2032, e che gli investimenti fissi lordi pubblici nel 2016 siano calati del 5,1% perché i 18 miliardi di “flessibilità” concessi dalla Ue li abbiamo sprecati per finanziare bonus a pioggia). E nessuno si azzardi a obbedire ai diktat europei. Al contrario, a Bruxelles ci dobbiamo andare “a gomiti larghi” (peccato che quando ci abbiamo provato, senza tessere prima le alleanze necessarie, poi abbiamo pagato un conto salato, come dimostra la manovrina primaverile necessaria per rimediare ai bagordi invernali).

Resta da capire che succede in Francia, nell’urna insanguinata dal terrore. Se vincono Macron o Fillon, fermando l’onda sovranista, Renzi andrà dritto a elezioni anticipate, per presentarsi alla sfida d’autunno con un governo investito del mandato popolare e nel pieno delle sue funzioni (al pari di quello francese e di quello tedesco). E a dispetto delle smentite di rito, non potrà che essere un “governo nazareno”, che dopo il voto riunisce in coalizione le due debolezze Pd-Forza Italia. Se invece vince la Le Pen, allora l’Europa chiude i battenti e l’Italia apre le porte a un “governo grillo-leghista”, che ci regalerà tragicomiche “monete fiscali” e cervellotiche “flat tax”, migranti immediatamente espulsi nella troposfera e redditi di cittadinanza allegramente spesati con i vitalizi dei parlamentari. Parafrasando la legge di Murphy: comunque vada, andrà male.

REP.IT

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