La resa dei partiti storici in una Francia divisa a metà

cesare martinetti
 

Emmanuel Macron salva l’onore della Francia: è il più votato con il 23,76 per cento al primo turno della presidenziali di ieri; Marine Le Pen arriva «solo» seconda con il 21,58, dopo l’orgia di sondaggi e tamtam che la davano da un anno al 26 per cento, primo partito e candidata da battere. E invece sarà lei a dover rincorrere il suo avversario di qui al ballottaggio del 7 maggio.

 

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Perdono gli storici partiti francesi, socialisti ed ex gollisti. Ma la vera questione è ora sapere se il giovane Macron, candidato senza partito, socialdemocratico dichiarato ed europeista convinto, sarà in grado di arrivare fino in fondo, se saprà reggere l’urto dell’onda populista di cui la Le Pen si è fatta interprete e non da sola. Il tribuno dell’estrema sinistra Jean-Luc Mélenchon leader della «France insoumise» (la Francia che non si sottomette) sfiora il 20 per cento e quindi sommando i voti degli «opposti estremismi» antisistema si arriva ad oltre il 40 per cento di voti espressi. È difficile immaginare che i voti dell’estrema sinistra si sommino automaticamente a quelli del Front National in odio politico al candidato del «sistema» Emmanuel Macron; più realistico immaginare che molti di questi consensi si trasformino in astensione. Mélenchon per ora non si è schierato. Ma la dimensione politica ed emotiva del fenomeno «anti» resta impressionante. È la sfida più grande della politica europea di oggi, dopo Trump e dopo la Brexit.

 

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Il candidato della destra repubblicana François Fillon si è quasi subito dichiarato sconfitto: sembra appena sopra Mélenchon, ma comunque sonoramente battuto. I francesi non gli hanno perdonato lo scandalo della moglie e dei figli stipendiati come assistenti parlamentari. Il candidato socialista Benoît Hamon raccoglie soltanto il 6 per cento dei voti: un risultato umiliante per rue Solférino che mette una seria ipoteca sulla sopravvivenza del partito. Ci vorrà una rifondazione, ma nessun Mitterrand (come fu nel 1971) è all’orizzonte. Sia Fillon che Hamon hanno già fatto appello a un voto «anti-Le Pen», a denti stretti – dunque – a favore di Macron, il candidato che più hanno combattuto in questa paradossale campagna elettorale.

 

Ma l’unica cosa che conta ora è sapere se Emmanuel Macron, questo giovanotto di 39 anni, brillante ex banchiere d’affari in Rothschild, ex vicesegretario dell’Eliseo, ex ministro dell’Economia di François Hollande, saprà convincere la maggioranza dei francesi di poter incarnare il ruolo da quasi monarca che la Costituzione della Quinta repubblica affida al presidente. Lo sapremo tra quindici giorni.

 

Intanto, quest’elezione è già storica sotto vari aspetti, un «sisma», come scrive Le Monde. Non vanno al ballottaggio i candidati dei due partiti tradizionali ed è la prima volta che accade. I socialisti eredi di Mitterrand sono ai minimi; i «repubblicani» eredi della mutazione gollista sono fuori dalla sfida decisiva nella vita politica francese. Per la prima volta il partito d’estrema destra, erede della Francia nera, da Vichy all’Oas che fece a suon di bombe la guerra a De Gaulle per l’indipendenza dell’Algeria, supera il 20 per cento dei voti. Per la prima volta un candidato come Macron, senza partito se non il suo movimento «En marche» (in marcia) fondato appena un anno fa, arriva al ballottaggio. Lui stesso era praticamente uno sconosciuto fino a quando Hollande non l’ha nominato ministro dell’Economia. E inoltre non era mai stato eletto, una vera eresia per la tradizione della politica francese che, fondata sul radicamento territoriale ed elettorale degli eletti («Les élus»), esprime da sempre la sua legittimazione.

 

L’analisi del voto, per quanto era possibile fare nella notte, conferma che nelle zone rurali e in quelle dove più ha colpito la crisi economica e industriale, Le Pen è prima come fu nelle regionali 2015 (quando però venne poi battuta ai ballottaggi). Macron vince a Parigi e nelle grandi città. È probabile che anche nella rilevazione dei flussi per generazioni le divisioni siano altrettanto nette: più forte Le Pen tra i giovani; più Macron nell’elettorato moderato.

 

La posta in gioco è altissima: governo della Francia e sopravvivenza dell’Unione Europea. La risposta del 7 maggio non è scontata: sugli 11 candidati che ieri si sono presentati al voto, solo Macron si dichiarava indiscutibilmente europeista. Naturalmente affermando la necessità di riformare e di cambiare la politica economica, meno austerità e più sviluppo, ma con la difesa ad oltranza della Ue e dell’euro. Anche Fillon, candidato della destra repubblicana, ha giocato l’ambiguità ricordando di aver votato No, nel 1992, al referendum sul trattato di Maastricht e la moneta unica.

 

Il ballottaggio introdurrà dunque una diversa scomposizione dell’elettorato: nel primo turno si vota col cuore e con la propria identità, nel secondo turno si sceglie con la ragione, spesso più contro il candidato che non si vuole che a favore dell’altro. Fu così nel 2002 quando a sorpresa il Presidente gollista Chirac si trovò di fronte al ballottaggio non il socialista Jospin, ma Jean-Marie Le Pen, storico duce dall’estrema destra e padre di Marine. La sinistra fu costretta a votare per il nemico: 82 per cento per Chirac. Ma molta acqua è passata sotto i ponti della Senna e gli scenari sono completamente diversi. Nessuno pensi di rivivere il replay di allora. È un’altra partita, ma – si spera – con lo stesso risultato finale.

LA STAMPA

 

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