La partita per rifondare l’Europa
Domenica sera a chi mandava sms di congratulazioni al team di Macron scrivendo «Vive la France», veniva risposto con il messaggio «Vive l’Europe». Risposta significativa: Macron ha vinto al primo turno delle elezioni francesi con un messaggio pro Europa senza ambiguità,un messaggio in cui la possibilità di progresso in Francia è legata al destino del progetto europeo. Strategia elettorale rischiosa di questi tempi, che però ha pagato. Macron nel discorso di domenica sera ha parlato di «rifondare l’Europa». Se dovesse vincere al secondo turno, cosa probabile, sarà importante capire cosa questo voglia dire per il futuro dell’area euro e per l’Italia in particolare. La prima osservazione è che qualsiasi proposta di rifondazione del progetto europeo debba fare i conti con un crescente malcontento. Anche in Francia, più del 40 per cento degli elettori si è espresso o contro l’Europa (chi ha votato per Le Pen) o per un’Europa impossibile (chi ha votato per Mélenchon). La seconda è che la Francia, nonostante abbia un forte potere negoziale, è un Paese debole e sicuramente il junior partner in un possibile asse franco-tedesco che si faccia promotore di tale proposta. La Francia ha bisogno di riforme, ma anche di politiche di inclusione sociale che proteggano chi in questi anni è stato marginalizzato e ha pagato il prezzo più alto della crisi, coloro che oggi fanno parte del 40%di euroscettici.
Per questo motivo ha bisogno di un’Europa le cui regole permettano di accompagnare le riforme con un sostegno della domanda, inclusa quella pubblica. Un progetto di «rifondazione» dell’Unione, che necessariamente sarà guidato da un nuovo asse franco-tedesco, si dovrà quindi basare su un compromesso che veda un impegno della Francia sul terreno delle riforme in cambio di una maggiore tolleranza della Germania nella reinterpretazione delle regole economiche che governano la zona euro. Non mi aspetto niente di rivoluzionario. Immagino che, con saggezza, Macron non inizierà le trattative chiedendo la riforma dei Trattati (Roma, Maastricht e Lisbona) e l’abolizione delle regole fiscali. I Trattati non sono leggi qualsiasi e la scelta di cambiarli non può diventare terreno immediato di negoziazione. È ragionevole pensare che il primo passo sarà stabilire le basi politiche generali di una alleanza franco-tedesca. Su queste si potrà poi discutere la reinterpretazione delle regole dei Trattati e possibilmente, se ci saranno le condizioni, la loro riforma. Non scordiamoci che qualsiasi riforma dei Trattati che implichi una maggiore condivisione del rischio nell’eurozona, con aspetti anche redistributivi tra un Paese e l’altro, richiede un referendum e deve essere legittimato da una maggiore integrazione politica, auspicabile sì, ma le cui forme al momento non sono chiare e per la quale il sostegno popolare è perlomeno incerto.
Ipotizzando che l’alleanza politica si faccia sulle basi suggerite sopra e si cominci quindi un percorso, guidato da Francia e Germania, che veda una maggiore integrazione economica e politica dell’Unione, quale sarebbe il ruolo dell’Italia? L’Italia, come la Francia, ha bisogno di riforme. Non parlo solo di liberalizzazioni, ma di un ripensamento profondo del suo modello di sviluppo, di un patto con i cittadini che offra più opportunità a tutti e allo stesso tempo crei incentivi per sbloccare il nodo produttività-crescita. Come in Francia, non lo si può fare senza mettere «olio sulla ruota». Questo, nel nostro caso, richiederà un piano di stabilizzazione del debito pubblico più lento. Un piano che possa articolarsi al riparo dalle inquietudini dei mercati, in cambio di impegni quantificabili sull’agenda nazionale. Ciò significa anche dare al governo della moneta unica i mezzi per garantire una coerenza tra politica monetaria e politica di bilancio che alleggerisca il peso delle responsabilità della Bce.
L’Italia è troppo debole oggi per avere un ruolo di leadership in un progetto di rifondazione dell’Europa, ma ha una parte importante da giocare. La si può giocare se si smette di fare demagogia e si capisce che il progresso, da noi come in Francia, è indissolubilmente legato alla stabilità e alla coesione dell’Unione; se si capisce che bisogna uscire dalla logica che attribuisce tutti i nostri mali all’austerità e all’imperialismo vessatore dei tedeschi; se si riesce a stare sul doppio binario della politica nazionale e di quella europea. Un Paese fragile come il nostro, fuori o dentro l’Europa ha sovranità limitata. Dentro l’Europa, se dovesse riaprirsi un dialogo costruttivo che ci dia più spazio di azione in politica economica, avremmo una nuova opportunità. Sarebbe un peccato perderla.
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