Alitalia, un pasticciaccio tutto italiano

di MASSIMO GIANNINI

A PARIGI si vota per salvare l’Europa. A Roma si vota per uccidere l’Alitalia. La vittoria dei no al referendum sul piano di salvataggio della compagnia aerea più disastrata del continente è il giusto epilogo di un fallimento permanente che dura ormai da trent’anni. L’ultimo capitolo, il più amaro, di un brutto pasticciaccio italiano.

Che tutti, ma proprio tutti, hanno contribuito a scrivere. Lo Stato e il mercato, la politica e il sindacato. Gli azionisti pubblici e i capitalisti privati, i manager cinici e i dipendenti privilegiati. Non c’è un solo attore, su questa quinta in rovina sulla quale sta per calare il sipario, che possa dire “io non c’entro”. Oggi serve a poco gettare la croce addosso ai lavoratori di cielo e di terra che hanno bocciato la proposta ultimativa dell’azienda (1.300 esuberi, 900 in cassa integrazione straordinaria, 8 per cento di stipendio in meno per tutti). È vero che a quella proposta Etihad, Invitalia e le banche avevano subordinato la concessione di altri 2 miliardi di capitali per tenere in piedi la compagnia. Ma è altrettanto vero che affidare ai dipendenti l’ultima parola sulla sopravvivenza di un’impresa (scambiandola con l’ennesimo giro di vite occupazionale e salariale), suona sempre come un vago ricatto. Non possono pagare colpe che non hanno.

Tuttavia, i tanti che hanno scritto il loro “no” sulla scheda hanno compiuto un gesto che racchiude in sé il vizio d’origine, culturale e industriale, che ha da sempre caratterizzato il volo avventuroso di Alitalia. A tutti i livelli. Cioè l’idea che di fronte ai dissesti epocali di questa compagnia ci sia sempre un piano B pronto in un cassetto. E che quel piano B, alla fine, sia sempre lo Stato padrone a dettarlo, tappando i buchi di bilancio con i soldi del contribuente. Questa volta non andrà così. Non c’è più una mammella pubblica, dalla quale succhiare i soldi per pagare gli stipendi, o il gasolio per far volare gli aerei. Questa volta c’è solo l’amministrazione straordinaria e la nomina di un commissario, che salda i creditori che può saldare e poi porta i libri in tribunale. E questo esito, doloroso quanto si vuole, non lo detta solo la solita Europa Matrigna, che vieta gli aiuti di Stato. Lo detta il buon senso. Non c’è più un cielo da solcare, per una compagnia aerea che perde 700 milioni all’anno, 2 milioni al giorno, 80 mila euro l’ora. Luigi Gubitosi è l’ultimo presidente arrivato al capezzale del moribondo, e se non riesce a rianimarlo lui (che ha avuto a che fare con il carrozzone Rai) non ce la può fare nessuno. Non ci sono più rotte da percorrere, per un vettore che ha creduto di giocare la partita dell’eccellenza insieme alle ricchissime compagnie degli Emirati, mentre Ryanair e Easyjet gli rubavano le tratte più battute (le turistiche a corto e medio raggio) e Freccerosse e Italo gli scippavano quelle più pregiate (la Roma-Milano su tutte). Ecco i colpevoli, di questo “delitto”. I politici l’Alitalia l’hanno usata come un taxi, per motivi elettorali e spesso anche personali. È stato così nella Prima Repubblica, quando le cavallette Dc e Psi l’hanno spolpata tra nomine lottizzate e assunzioni clientelari. È stato così nella Seconda, quando Berlusconi nel 2008 se l’è giocata al tavolo della campagna elettorale, facendo saltare l’unica fusione che allora aveva ancora un senso, quella con Air France-Klm. È stato così anche nella Terza, quando hanno finto di difendere a chiacchiere “la compagnia tricolore”, mentre nei fatti cedevano pezzi di mercato alle low cost straniere. I privati l’Alitalia l’hanno usata solo per ingraziarsi il Palazzo, come accadde con i “patrioti” che su ordine del Cavaliere ci misero un obolo solo per garantire la patetica difesa “dell’italianita’”, e non certo una prospettiva strategica credibile.

I manager l’Alitalia l’hanno sfasciata, in un tourbillon di piani industriali buttati al macero e di bonus astronomici ficcati in portafoglio. In cinquant’anni sono cambiati tre all’anno, cinque solo negli ultimi cinque anni. Da Nordio a Cempella, da Mengozzi a Cimoli. E poi Sabelli, Ragnetti, Cassano. Pare una squadra di calcio. Peccato che si sia rivelata di serie C, moltiplicando i passivi anno su anno. Almeno Mengozzi e Cimoli, qualcosa hanno restituito, tra una condanna a 6 e una a otto anni. Ma siamo tutti garantisti, per carità. Restano i sindacalisti, che hanno lucrato prebende previdenziali e bloccato alleanze industriali, sempre convinti che il bengodi degli anni ‘70 non sarebbe mai finito. Siamo all’ultimo volo della Fenice. O sbuca fuori un grande partner (occidentale o asiatico che sia) e si compra la compagnia tutta intera, o siamo al capolinea. Bisogna dirlo, con dolore. Forse è meglio così. È bello, per un Paese, poter schierare nei cieli del mondo globalizzato la sua “compagnia di bandiera”. Da orgoglio, fa “identità”. Ma questo non può più avvenire a qualsiasi prezzo. Se ci sono le condizioni di mercato, bene. Altrimenti, se ne prenda atto, e si compiano le scelte conseguenti. Tra il 1974 e il 2014, per salvarla, abbiamo speso 7,4 miliardi di denaro pubblico: l’equivalente di una “Alitalia tax” da 180 milioni l’anno. Forse può bastare. Dio è morto, Pantalone è morto, e stavolta può morire pure Alitalia.

REP.IT

Rating 3.00 out of 5

No Comments so far.

Leave a Reply

Marquee Powered By Know How Media.