I lamenti dell’Italia immobile .
Il consueto riferimento al provincialismo spiega poco o nulla. Da che cosa dipendono gli eccessi di «esterofilia» di cui sono periodicamente preda tanto la politica quanto il mondo della comunicazione? Da dove nasce l’irresistibile impulso a chiedersi, di volta in volta, chi sarà mai il futuro Mitterrand italiano, il futuro Blair, la futura Merkel, il futuro Sarkozy, e oggi, naturalmente, il futuro Macron? Il suddetto impulso, e le connesse parole in libertà, nascono probabilmente dall’esigenza di ribadire quel (finto) odio di sé, quel (finto) viscerale disprezzo per se stessa che l’Italia pubblica è tenuta a manifestare ogni giorno. Esiste da tanto tempo una convenzione sociale religiosamente osservata dai più. Consiste nel ribadire in ogni minuto che Dio manda in terra che l’Italia è il peggio del peggio, forse il Paese più corrotto di tutto il mondo occidentale, nonché
il più inefficiente, quello che sta in fondo a tutte le possibili classifiche, quello che esce malconcio in tutti i confronti internazionali. A leggere certi commenti sembra che al di qua delle frontiere, in Italia, imperi il vizio e che basti attraversarle, entrare
in un qualunque altro Paese europeo per trovarsi a diretto contatto con la virtù e la perfezione umana. Se l’Italia, come risulta dalle suddette descrizioni, è il peggio, non resta che aggrapparsi ai «modelli stranieri»: importare i Blair, i Macron e via discorrendo.
Questa immagine caricaturale, si suppone, serve a uno scopo (dovrà pur servire a qualche cosa, ad esempio, avere dichiarato davanti al mondo che la Capitale d’Italia è o era in mano alla mafia, con il corollario che se lo era la sua Capitale, lo era l’Italia intera). Lo scopo sembra essere quello di garantire il più totale immobilismo. Se pensiamo che ci siano alcune «cose che non vanno», accanto ad altre che funzionano, allora potremo concentrare risorse e attenzione per migliorare tali cose. Ma se ci convinciamo che «tutto va male», allora viene a mancare lo spazio, e anche la disposizione d’animo, per l’azione ragionevole tesa a risolvere qua e là, problemi. Resta solo la possibilità della lamentazione. Se «è tutto sbagliato, è tutto da rifare», allora il compito di rimediare va al di là delle capacità umane e, per conseguenza, nulla verrà rifatto. Nell’Italia pubblica che si auto-fustiga fingendo di disprezzarsi l’esigenza non è quella affrontare, cercando di risolverli, i problemi, ma di lamentarsi per l’esistenza dei problemi.
Ai nostri vizi, sia quelli veri sia quelli immaginari, non intendiamo rinunciare. E guai se qualcuno dà l’impressione di fare qualcosa di concreto per migliorare un po’ le cose. Soprattutto ci teniamo a non rinunciare al nostro principale (autentico) difetto: istituzioni congegnate per garantire l’ingovernabilità. Tutti ora in Italia parlano di Macron. Ma se qualcuno proponesse seriamente di adottare anche da noi istituzioni simili a quelle della Repubblica di cui Macron potrebbe diventare il presidente si leverebbero grida di orrore e raccapriccio. C’è gente che è riuscita a considerare come una «minaccia autoritaria» persino una modesta proposta di superamento di quell’obbrobrio istituzionale che è il parlamentarismo paritetico. Cosa direbbe quella stessa gente se messa di fronte al progetto di una repubblica presidenziale nella quale il capo dello Stato dispone di estesissimi poteri, ivi compreso quello di dichiarare lo stato d’emergenza? La suddetta gente non tirerebbe subito in ballo Hitler o Pol Pot?
Tutti sanno che in un’Italia senza più i forti partiti di un tempo la legge proporzionale porterà instabilità politica e governi deboli. Ma ciò va benissimo a tanti. Se, ad esempio, vuoi provare a scaricare ancora una volta sui contribuenti il peso di mantenere in vita una azienda decotta a vantaggio di pochi, ti conviene avere a che fare con governi deboli e maggioranze parlamentari rissose e scollate. Ci sono più probabilità di riuscire a spuntarla. Più in generale: quanto più è frammentato il quadro politico, tanto più prosperano i poteri di veto (sulle decisioni altrui). E la presenza di forti e diffusi poteri di veto garantisce l’immobilismo. Un quadro politico frammentato, ad esempio, assicura che non ci sarà mai una guida sufficientemente salda e coesa per imporre un po’ più di efficienza alla macchina burocratica togliendo spazio alle rendite di posizione, grandi e piccole, che da sempre la condizionano negativamente. In realtà, c’è una parte consistente del Paese — solo apparentemente irrazionale — che mentre denuncia i mali d’Italia, sia quelli veri che quelli immaginari, anche calcando la mano più del lecito, contemporaneamente resta avvinghiata allo status quo.
È la ragione, paradossale solo in apparenza, per cui qui da noi l’antipolitica trionfa ma, guarda un po’, si tratta di un’antipolitica di tipo particolare: un’antipolitica che chiede ancora più Stato (e quindi, inevitabilmente, anche più politica) di quello che già ora c’è. In sostanza, ci si rammarica perché Roma non è Londra o Parigi o Berlino ma, contemporaneamente, si trattano con indulgenza o addirittura simpatia proposte che se adottate accentuerebbero i nostri difetti, renderebbero l’Italia simile al Venezuela.
Nella vita pubblica (di qualunque Paese) circolano sempre, inevitabilmente, molte insensatezze. Non sono mai innocue. Non lo è nemmeno l’italica esterofilia.
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