Bande armate e miseria, nelle strade di Caracas l’incubo della guerra civile
Verso l’ora del tramonto, la piazza Altamira è illuminata solo dai fuochi di sbarramento accesi dai ragazzi della protesta contro il governo chavista. Bottiglie molotov in mano, passamontagna calati sulla faccia, hanno appena salutato l’ultima vittima della repressione, lo studente ventenne Juan Pernalete, ucciso da una bomba lacrimogena che lo ha colpito al petto. La polizia ha bloccato le strade, ma dopo i trenta morti dell’ultimo mese, stasera almeno lascia fare. È l’immagine di un Venezuela arrivato al bivio, tra l’incubo di una guerra civile che già si intravede, la perpetuazione del chavismo in una dittatura militare, o una soluzione politica di compromesso che però nessuno sembra in grado di immaginare.
L’accelerazione è cominciata a fine marzo, quando la Corte suprema legata al regime ha tentato di esautorare l’Asamblea Nacional, il parlamento dove l’opposizione ha una maggioranza di due terzi. Dicono che l’abbia fatto per trasferire al presidente Maduro i poteri necessari a garantire i prestiti chiesti alla Russia, indispensabili per evitare il default dello stato sommerso dai debiti. Quella sentenza maldestra è stata denunciata persino dalla procuratrice generale Luisa Ortega Diaz, ed è stata mezzo revocata poche ore dopo, ma per l’opposizione è diventata l’occasione della svolta. Da allora in poi è scesa in piazza tutti i giorni, con manifestazioni che puntano a costringere il governo ad accettare nuove elezioni. Sicura che Maduro le perderebbe, perché i sondaggi più generosi non gli danno oltre il 20% dei consensi. Proprio per questo il regime ha risposto con la repressione, e potrebbe continuarla o inasprirla, fino a cancellare le presidenziali che in teoria dovrebbero tenersi l’anno prossimo.
(Un manifestante travestito nelle strade della capitale venezuelana regge la scritta «La dittatura di Maduro è la morte»)
Fin dal golpe fallito del 1992, il chavismo si era giustificato con l’obiettivo di combattere corruzione e povertà, risollevando la gente dimenticata dall’élite che lasciava cadere solo le briciole della ricchezza prodotta dal petrolio, le altre risorse naturali come l’oro, e il turismo. Quando nel 2006 ero venuto a seguire le elezioni vinte da Chavez contro Rosales, nelle «favelas» di Caracas questa logica reggeva ancora, grazie al boom del greggio che consentiva di finanziare l’assistenzialismo, la corruzione, e pure la sopravvivenza del castrismo a Cuba, anche se nel frattempo la struttura produttiva del Venezuela veniva lentamente smantellata. Col prezzo del petrolio crollato da oltre 100 dollari al barile a meno di 30, però, l’illusione è finita. Oggi un ingegnere, se va bene, guadagna cento dollari al mese, e se ha figli fatica a garantire loro il pane. Ammesso che lo trovi, perché persino i generi alimentari di base vengono importati dal Messico o dai paesi vicini, e si trovano quando arrivano. Al supermercato si fanno i turni, nel senso che puoi andare a fare la spesa solo nei giorni in cui il numero finale della tua tessera sociale corrisponde con quello autorizzato a mettersi in fila. L’inflazione era al 150%, ma alcuni la stimano oltre l’800%. Un dollaro vale circa 10 bolivares al cambio ufficiale, ma oltre 4.000 a quello nero. Nel frattempo la carenza di risorse e medicine ha fatto tornare anche malattie debellate, come la malaria: dei 400.000 casi registrati in Sudamerica nel 2016, 240.000 erano in Venezuela.
(Una giovane piange durante l’omaggio a una vittima degli scontri)
Inutile dire che l’attività economica è precipitata: le stesse autorità locali ammettono che nel giro degli ultimi due anni il numero delle piccole e medie imprese è diminuito da 750.000 a circa 250.000. Il paese resta tra i primi sette produttori di greggio al mondo, primo in termini di riserve ancora da sfruttare, ma fatica a vendere pure quello. Nei giorni scorsi la compagnia petrolifera Pdvsa ha ceduto ai russi di Rosneft il 49,9% della sua sussidiaria americana Citgo, come collaterale per un prestito di Mosca di cui Caracas ha bisogno per evitare il default. E anche se l’operazione riuscisse, diversi analisti prevedono che a settembre il Venezuela si troverà di nuovo sull’orlo del fallimento, senza però avere più questa risorsa da cedere allo scopo di evitarlo.
Per cercare di conservare un po’ di consenso, il governo aveva lanciato il piano dei Clap, cioè i comitati locali di assistenza, che al prezzo politico di 10.000 bolivares, un paio di dollari, distribuiscono ai poveri buste di generi alimentari per la sopravvivenza. A patto che partecipino a tutte le marce indette dal regime e facciano i bravi. Solo che l’obiettivo era raggiungere almeno 8 milioni di persone, cioè 8 milioni di voti in vista delle prossime elezioni, ma la distribuzione si è fermata a circa la metà.
Questa miseria sta alimentando la violenza criminale, al momento ancora più grave di quella politica. Ogni giorno in Venezuela muoiono circa 80 persone uccise dalla delinquenza, e Caracas è ormai la città più pericolosa del continente. A ciò si aggiungono i colectivos, cioè i gruppi paramilitari che difendono il regime sparando contro gli oppositori. Li riconosci per la strada, quando sfrecciano sopra moto di alta cilindrata senza la targa. Sono armati, e ormai non vengono utilizzati solo per reprimere le manifestazioni degli oppositori, ma anche per tenere sotto controllo le «favelas», dove il consenso per il chavismo sta svanendo e cresce la voglia di riversarsi sulla capitale per far esplodere il malcontento.
Tutto questo c’è dietro alle proteste, che ieri hanno marciato su Ramo Verde, il carcere dove sono rinchiusi i detenuti politici, come i leader dell’opposizione Leopoldo Lopez e Gilber Caro. Altri, come l’ex sindaco di Caracas Antonio Ledezma, sono agli arresti domiciliari, accusati di aver complottato contro lo Stato o preso fondi pubblici, spesso senza portarli neppure in tribunale. Henrique Capriles, avversario di Maduro nelle presidenziali del 2013, è invece libero ma interdetto dai pubblici uffici. Giovedì, partecipando alla manifestazione di Altamira per ricordare Juan Pernalete, ha denunciato: «Maduro è un genocida, chiediamo le elezioni anticipate».
Nel frattempo l’Asamblea Nacional, riunita fuori dalla sua sede dove non può più entrare, ha approvato un documento in cui afferma che dopo la repressione violenta il governo non è più legittimato a guidare il Venezuela, chiude la porta alla mediazione tentata a fine anno dal Vaticano, e chiede di andare subito al voto. Il bivio, che potrebbe portare il paese alla guerra civile. Maduro, infatti, sa che perderebbe le elezioni vere e non intende cedere. L’esercito finora è rimasto con i chavisti, anche se il consenso tra i ranghi scricchiola, ma se decidesse di cambiare posizione, come spera l’opposizione, si rischierebbe lo scontro diretto con i colectivos armati. I manifestanti invece non hanno molto, oltre alle molotov, e se questo li rende moralmente superiori, li espone alla repressione.
Il Parlamento Europeo e la responsabile Ue degli Esteri Mogherini hanno chiesto le elezioni, come Roma, che però deve preoccuparsi anche dei circa 150.000 italiani e oltre un milione di oriundi che vivono nel Paese. Il presidente Trump giovedì ha detto che «il Venezuela è un disastro», ma Washington è prudente perché teme che le sue critiche rafforzino Maduro, oppure accelerino una crisi che esploderebbe alle sue porte con migliaia di rifugiati. Il regime spera di fiaccare l’opposizione, però sul piano economico ha le spalle al muro, e l’anno prossimo comunque dovrebbe tenere le presidenziali. Se un Venezuela così arriverà all’anno prossimo.
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